Paola Silvestro intervista Salvatore Pica

 

 

Paola Silvestro

 

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Le cinque vite di Mister Pick

 

Raccontare Salvatore Pica e i suoi quarant’anni di attività nel mondo dell’arte e della cultura ci conduce sulle diverse strade che uno dei più vivi animatori culturali della città, oggi alla soglia dei settant’anni, ha intra­preso per inseguire la sua pas­sione per l’arte, la socialità e la creatività tout-court spesso deviando da binari già tracciati e sicuri per ascoltare le sue esi­genze e volontà, ispirate al proprio privato in una dimensio­ne più propriamente sociale. Vissi d’Arte: quarant’anni sui marciapiedi dell’Arte 1968-2008 vuole dare testimonianza delle più rilevanti iniziative nate dall’in­stancabile energia di Pica. Nel testo ci sono i ricordi personali di amici e di alcuni fra quelli che hanno incrociato Salvatore Pica sul loro cammino, un’ampia, raccolta di immagini: manifesti, copertine di cataloghi e libri, articoli di giornale, copie di comunicati e-mail - che testimo­niano la quantità di mostre, dibattiti, convegni realizzati in questo lungo arco di tempo. Seguiamo i ricordi dolce-amari di Salvatore che tracciano, sen­za alcun pudore, il sentiero che ha percorso per realizzare il suo sogno di ragazzo: vivere d’arte. L’approccio all’arte e alla cultura come elementi aggreganti e di sostegno alla società si rivela l’inevitabile approdo per lui che, da ragazzo, aveva individuato soltanto nell’arte la via di fuga dalla Napoli del dopoguerra. «Vivevo - ricorda Pica - nella violenza psicologica pura diluita dei vicoli, nei dedali della Pignasecca. L’arte è stata un rifugio dal volgare quotidiano e mi ha aiutato ad uscire da una vita già segnata, chiusa in sche­mi già definiti.» Un giovane Pica sfruttò allora le varie opportunità che la città gli offriva per evadere da una realtà poco serena, coltivò i suoi interessi artistici coniugandoli con la precoce e impellente necessità lavorativa determinata anche dalla scom­parsa, a pochi anni di distanza, di entrambi i genitori quando era ancora un adolescente. Allora: ai palcoscenici dei vari teatri napo­letani che Pica calcò come comparsa, dai nove ai dicianno­ve anni, alla sala di lettura della Biblioteca Nazionale e quella di ascolto della U.S.l.S. (la bibliote­ca americana di via Medina) dove si recava per ascoltare gratuitamente il jazz, si alterna­vano gli spazi della Rinascente, dove fu aiuto commesso, poi quelli della Olivetti, dove fu venditore di macchine da scrive­re, e ancora altri luoghi e altri lavori: venditore di libri, di calza­ture, commesso in un mobilificio e poi aiuto commesso al centro “Fly” di Milano, dove incontrò finalmente il design. Si rifugiò anche come claquer al teatro San Carlo, attività che alimenta­no la categoria dello spirito perché tanto la carne va da sé. Nel design Pica riconobbe l’ele­mento di ricongiungimento tra la ricerca concreta di una stabilità economica e gli interessi artistici di ragazzo. «L’incontro con il design è stato per me l’incontro con l’idea della vita altra, con una sua progettualità. Il design - continua Pica - coincideva con l’idea del progresso, de “il bello per tutti”, se posso usare questo termine tardo socialista, e per me che provenivo dai vicoli, che avevo svolto lavori sommessi si apri un mondo. Venni in contatto con vari esponenti dell’editoria del design, della produzione e con gli stessi creativi per cui, da aiuto commesso, risentivo in maniera positiva, ma sempre dalla porta di servizio, dei van­taggi di respirare l’aria di cui questi soggetti erano portatori.» L’esperienza milanese durò quattro anni, dal 1960 al 1963, durante i quali il design divenne per Pica il «pane quotidiano» ma soprattutto una «scelta di vita.» L’abbandono di Milano nel ‘63 fu determinato dalla sempre maggiore attenzione, da parte degli addetti ai lavori, al momen­to produttivo e all’efficienza, alla dimensione «tecnica» più che quella «umana» ed inoltre da fattori squisitamente personali come la mancanza del clima, del mare e della gente della sua città. Pica ritornò dunque a Napoli e continuò a lavorare nel settore, nella sezione cucine, presso “L’Elettrotecnica Meridionale” dell’ingegner Vignes fino al 1968. «I cinque anni napoletani con Vignes sono stati per me una vera e propria scuola di specializzazione, dopo l’appren­distato milanese», in quegli anni si instaurò inoltre il legame con Alfredo Profeta, all’epoca com­messo presso la storica libreria Macchiaroli, che provvide a fornirgli quella sistemazione teorica inerente il suo lavoro e i suoi interessi artistici che ancora gli mancava. «Guidato da Profe­ta mi sono avvicinato ai grandi autori dell’arte, della sociologia e della comunicazione. Ricordo con gratitudine la sua capacità di mettere a proprio agio gli incolti come me.» Alla fine di questi cinque anni, Pica si sentiva più preparato, «laureato» dice con ironia, pronto a rischia­re. Fondò così il Centro Ellisse, un ulteriore e forte deviazione dai binari, in società con l’ing. Biondi, che dopo solo un anno lasciò la sua quota societaria per ritornare in Sicilia, la sua terra natia.

 

 

Il Centro Ellisse. Dal 1968 al 1985

 

Il centro Ellisse andava ad ag­giungersi ad altre realtà presenti sul territorio partenopeo, tra cui:”Il quadrante” della ditta Cappelli di Piazza dei Martiri (nella sede attuale del megastore Feltrinelli), “Forum” di Massimo Pistilli a San Pasquale, attento al puro design italiano anni Quaranta/Cinquant­a, Gianni Rampa e l’architetto Marsiglia in via Poerio, l’uno specializzato in mobili scandina­vi, l’altro nel design americano. Sin da subito il Centro non si presentò soltanto come un negozio di mobili di design noderno, ma come il luogo in cui far confluire tutti gli sfaccettati interessi artistici e culturali del suo fondatore, aper­to non soltanto ai clienti ma a tutta la città. Già all’inaugurazione dei locali, awenuta nel settembre del 1968, si palesarono gli intenti di Pica: l’allestimento scenico fu curato da Lucio Amelio, un amico ma soprattutto uno dei più validi galleristi d’arte in Italia, che provvide ad abbellire il Centro Ellisse con opere pittori­che e scultoree di diversi artisti, tanto che, ricorda divertito Pica, «per sottolineare che il negozio non era una galleria d’arte espo­si un letto in vetrina.» La collaborazione professionale con Amelio durò un anno, ma l’amicizia e l’affetto con Lucio durò sempre, in seguito il centro Ellisse continuò ad accogliere diversi artisti con le loro opere e ad organizzare iniziative di tipo culturale. «Sin dall’inizio del mio lavoro a Napoli, ho utilizzato l’arte e la cultura come veicolo sociale di aggregazione del mercato. Tra i miei clienti c’erano operai, ricchi e radical-chic tutti accomunati dall’idea di conside­rare il design legato al mito del progresso», testimone tangibile della democraticità del design lo stesso Pica. In poco tempo il Centro Ellisse iniziò ad attirare anche l’attenzione di studenti di architettura, di architetti o arredatori interessati tra l’altro alle esposizioni di mobili firmati da personaggi di rilievo del settore, come la cucina per la ELAM di Marco Zanuso, tra i padri fondatori del design del dopoguerra, il sistema Oykos di Antonietta Astori della Driade, attualmente tra gli architetti e designer noti a livello internazio­nale e le mostre di Alessandro Mendini e Andrea Branzi e dello Studio Alchimia negli anni Ottan­ta. (Il sistema Oykos fu accom­pagnato dal catalogo curato da Benedetto Gravagnuolo “Antonia Astori Designer”, i Quaderni del Centroellisse, LAN,1983.) L’esigenza di arricchire di una dimensione culturale e artistica plusvalente la sua iniziale attività di vendita in Via Carducci divie­ne nel tempo sempre maggiore per Pica. «Accanto all’attività primaria di esposizione e vendi­ta di mobili - spiega infatti - ospitavo pittori, scrittori, musicisti, grafici o poeti per far produr­re la loro idea culturale. Sentivo il “bisogno” di organizzare inizia­tive di carattere interdisciplinare,  facendo un uso sociale del­l’azienda privata, in modo da appagare il Peter Pan presente in me.

 

 

Le attivita’ artistico/culturali del Centro Ellisse

 

Finita la collaborazione con Amelio, Pica inaugurò nel 1969 la fase grafica del Centro Ellisse. Da allora tanti sono stati i mani­festi pubblicati fino ad oggi ininterrottamente da vari artisti tra cui: Almerigo De Angelis, Antonio Dentale, Alfredo Profe­ta, Geppino Cilento e Checco Moroso. Nell’intento di mescola­re la vendita di mobili e arte Pica decise di offrire a tutti i visitatori e clienti del Centro i manifesti da loro ideati. Un’altra iniziativa partita nel Settantatré traeva spunto dalla personale attenzione e curiosità di Pica verso il fermento e la dinamicità culturale della Napoli di quegli anni. Nacquero allora i “Quaderni del Centro Ellisse”. grazie alla collaborazione di personaggi che erano parte attiva di quel fermento. Il primo volume “I segni della città”, curato da Alfredo Profeta con fotografie di Fabio Donato, docu­mentava il graffitismo, conscio e inconscio, che emergeva dai muri della città con varie schede sui grafici attivi in quegli anni; il successivo, curato da Profeta con scritti di Giulio Baffi, poneva l’attenzione sul teatro di ricerca a Napoli negli anni Sessanta e Settanta, documentato dalle fotografie di Fabio Donato. «Attraverso i quaderni - spiega Pica - ho cercato un modo per rendere chiaro ai più i movimen­ti, il nuovo che si agitava nelle viscere della nostra terra.» In quello stesso anno Pica volle inoltre sensibilizzare la coscien­za dei napoletani sulla questione cilena. Lo fece ospitando diversi artisti del Cile in mostre di pittura e tessitura e attraverso una serie di serigrafie prodotte da Dentale che rendevano omaggio alla memoria del presidente Salvadore Allende drammatica­mente scomparso l'11 settembre del 1973 durante il golpe realiz­zato dal colonnello Augusto Pinochet.

Il ‘75 vide l’intensificarsi del rapporto tra Pica e l’architetto Geppino Cilento studioso, culto­re e cantore della cultura conta­dina e delle sue manifestazione artistiche. lì Centro Ellisse si apri così alle creazioni artigianali di diversi artisti accompagnandole con pubblicazioni esplicative. Lo stesso Cilento presentò al Cen­tro i suoi presepi di ceramica realizzati dal famoso Pinto, vennero esposti i legni lavorati da Pasca, Palomba e Lauro, ma anche le ceramiche di Vietri e i gioielli di Fausto Vetere. Nello stesso periodo il Centro iniziò a sostenere e promuovere iniziati­ve che prevedevano un confron­to e un impegno diretto degli artisti con la società. In questo nuovo contesto si inserirono diversi eventi: l’incontro “Città - Campagna” e il “Museo di Arte Contadina” organizzati e curati dallo stesso Cilento presso il Comune di Terzigno, ma soprat­tutto la presenza alla Quarta Conferenza Agraria Nazionale del P.C.I. a Pugno Chiuso (Fog­gia), il 2 e 3 aprile del 1976, con la Mostra dei lavoratori delle arti visive di Napoli, sostenuta dal Centro Ellisse e curata dal Cen­tro redazionale Città campagna, a cui parteciparono tra gli altri: Franco Canale, Gianni Lizio, Cesare Accetta, Ciro Esposito. Fabio Donato, Giuseppe Manigrasso. Luca Castellano, Franco Lista, E. Esposito, Giro De Falco ed altri. Gli artisti appe­na citati ed altri ancora parteci­parono il 20 giugno dello stesso anno alla creazione del Museo-Laboratorio Arti Visive voluto da Geppino Cilento e presentato nel corso del Festival Nazionale dell’Unità tenutosi alla Mostra d’Oltremare di Napoli.

«Con questa partecipazione si chiuse quello che definisco - specifica Pica - il ciclo dell’artista nel sociale, perché il festival stesso segnava la fine di un’epo­ca. La situazione politica e quoti­diana dell’Italia stava cambiando rapidamente e nel peggiore dei modi, di li a poco nel Settantasette il terrorismo inteso come movimento sociale avreb­be spinto avanti la battaglia delle idee in un modo torbido e perverso. Sentivo che era ne­cessario cambiare, anche nel nostro piccolo, le forme della comunicazione. Risposi a questa esigenza adeguando l’offerta del Centro Ellisse dando vita a due riviste: “1000 e una donna” curata da Clara Fiorillo e “Scena territoriale”, rivista di architettura diretta da Geppino Cilento. Ma oltre a queste due iniziative collaterali decisi - continua Pica - che era necessario ritornare al mondo delle competenze meramente tecniche, per cui mi rivolsi alla memoria, al design e all’arte dei giovani.»

Grazie all’aiuto di Antonio Den­tale, Attilio Belli e di un giovane Benedetto Gravagnuolo, oggi preside della facoltà di Architet­tura di Napoli, fu organizzato il convegno “Storia dell’architettu­ra” a Villa Pignatelli, che fu inaugurato dal professor Manfredo Tafuri, uno dei più autorevoli storici del settore. Un ulteriore punto di aggancio con un’idea più genuina e meno “politica” di arte venne individua­ta da Pica nella creatività dei giovani artisti, degli studenti, di quelli che ancora sono estranei al circuito produttivo e distributi­vo artistico, ma che vivono pienamente di arte per l’arte. Così, grazie all’interesse del professor Enrico Bugli e poi dopo del direttore dell’Accade­mia Gianni Pisani iniziò una stretta collaborazione tra il Cen­tro Ellisse e l’Accademia di Belle Arti di Napoli, che durò fino a 1987. Nel corso di poco meno di dieci anni, oltre quattrocento artisti emergenti esposero per la prima volta le loro opere al Centro Ellisse. Tra gli altri al loro pigmalione piace rammentare Lino Fiorito, Sergio Fermariello, Gennaro Castellano, Adriana Manes, Raffaella Nappi e Pierre Yves Le Duc.

«Scelsi queste due vie - ricorda Pica - perché mi sembravano più vicine al mio modo d’essere. Chiaramente, dopo il Settantasette, tanti in Italia si guardarono indietro e si rivolsero alla memoria, in altri casi invece tutta la creatività artistica che prima si impegnava nel sociale passò in altri settori non istituzionali. Penso alla Milano di quegli anni che vide l’affermarsi della pubblicità, delle televisioni libere, della moda, ma anche, nel campo di mio più immediato interesse, del radical design e della transavanguardia.» La fisionomia del Centro Ellisse intesa come circolo culturale viene a strutturarsi e a rinforzarsi in maniera più definitiva proprio nel corso degli anni Settanta. Verso la fine di quel decennio, il Centro era infatti animato anche da iniziative di carattere più ampio come la mostra “Arte e pedagogia” coordinata e voluta dall’architetto Donatella Mazzoleni, che vide la partecipazione degli artisti Boris Porena e Paola Bucan, e l’incontro “Poesia a Napoli anni ’60-‘80” curata dall’artista e poeta visuale Luciano Caruso.

 

 

Salvatore Pica in una delle sue cinque vite

 

Il terremoto, l’Accademia della Catastrofe, il Pick e Paik Club.

 

Le attività culturali e la vendita stessa del Centro subirono però una brusca battuta di arresto all’inizio degli anni Ottanta a causa di due tragici eventi, uno sociale l’altro privato, che colpirono Pica, l’energia creativa e trascinante del Centro Ellisse. Il ventitrè novembre dell’Ottanta Napoli e la Campania furono aggredite dalla potenza devastatrice delle onde sismiche che scossero fisicamente e moralmente il territorio, portando a galla tutte le energie che agivano su di esso, sia quelle positive  che negative. «il terremoto - ricorda Pica - portò una folta schiera di persone, precedentemente impegnata nel sociale, a riversarsi sulla montagna di miliardi che questo triste evento portò con sé. Io pur avendo superato all’epoca i quarant'anni rimasi meravigliato, come un Candido, di questo cambiamento repentino di gran parte dell’intellighenzia cosiddetta progressista. che si inchinava sempre più alla cultura del mercato e della politica, ricercando il successo e il potere, badando solo al possesso e all’apparire.» Se vi furono quelli che cambiarono volto stuzzicati dagli interessi in gioco c’erano altri che proseguirono per la loro strada e ancora più stimolati dallo schiaffo dato dalla Natura alla Città, continuarono a mettere a disposizione le loro energie e competenze affinché avvenisse il tanto auspicato riscatto sociale e culturale di Napoli. Anche Pica continuò a dare il suo contributo operando sui sentieri della memoria, della competenza e dell’arte giovanile rintracciati tre anni prima e fu inoltre fortemente coinvolto dall’importante progetto “Terrae-Motus” cui stava per dare vita Lucio Amelio. Pica partecipò alla fondazione legale di Terrae-Motus presso il notaio Ferdinando Tozzi e fu presente insieme con sua moglie Lella a New York, al pranzo in cui Amelio ricevette il sostegno per il suo progetto da parte di Leo Castelli, il maggiore gallerista dell’arte americana. Più avanti, Pica rievoca con affetto quel viaggio oltreoceano in cui, grazie ad Amelio, ebbe l’opportunità di incontrare Andy Warhol. Di quella visita alla Factory restano le emozioni e il quadro realizzato dall’imprevedibile genio a Lella che soltanto sei mesi dopo morì.

La perdita della moglie è stata per Pica la sua «catastrofe personale» che si aggiungeva a quella di carattere naturale e sociale che aveva colpito la città. «A distanza di anni mi sono reso conto che queste due catastrofi entrarono perversamente in me, conducendomi in un tunnel buio, dal quale capii che era possibile uscire soltanto condividendo e socializzando in qualche modo il mio profondo dolore, dato che in me l’aspetto privato e quello pubblico viaggiavano sempre paralleli. Fondai così l’Accademia della Catastrofe, insieme con Benedetto Gravagnuolo, Francesco Durante, Michele Buonomo e Fabrizio Mangoni. Uno strumento tutto soggettivo che trasmetteva attraverso il gioco e l’ironia, un dolore personale forte a tal punto che mi condusse nell’arco di qualche anno ad un gesto estremo: la chiusura del Centro Ellisse, la fine dei rapporti con la commercializzazione e con il design.»

Prima di chiudere totalmente la sua attività e dire addio al mondo costruito in poco meno di vent’anni Pica continuò, fino al 1985, ad organizzare incontri ed eventi. Espose nel 1981 i manifesti sovietici dell’assoziazione “Italia-Urss”, oggi denominata “Massimo Gorkij”, ed ospitò dibattiti e mostre di alcuni tra i maggiori esponenti del radicaldesign: Alessandro Mendini, direttore della rivista Domus, che curò tra l’altro il convegno “Il design oggi in Italia” presso Villa Pignatelli; Andrea Branzi, all’epoca direttore della Domus Academy; accolse i lavori dello Studio Alchimia; i dibattiti con Isa Vercellone, direttrice di Casa Volum; ancora, le mostre di Nicola Pagliara, Sergio Cappelli, Patrizia Ranzo ed altri artisti, e la pubblicazione del volume “I centri storici” curato da A. Belli. «Nonostante dopo la perdita di mia moglie avessi continuato - ricorda Pica - nella mia attività di vendita e di diffusione culturale sentivo che qualcosa era cambiato irrimediabilmente in me, nella città ed anche nel design. Quest’ultimo, dopo l’avvento del gruppo Memphis capitanato da Alessandro Mendini e da Ettore Sotsass, era mutato radicalmente sia nei materiali che nel linguaggio estetico, era molto più globalizzato e ironico. Ciò fu per me un’altra perdita perché sanciva la fine di un’epoca, il crollo dei valori in cui avevo creduto e che mi avevano formato. Il crollo della vecchia idea di design e del progetto si inseriva nella mia catastrofe personale. Nei primi tre anni degli Ottanta era come se fossi stato colpito da tre gravi lutti, tre perdite mille lire. - sottolinea Pica con l’amara ironia che lo caratterizza - La perdita del design, dell’impegno sociale e la perdita di mia moglie.»

 

I cambiamenti improvvisi e irreversibili che si erano verificati, la caduta dei suoi capisaldi, distrassero Pica dalla gestione del Centro Ellisse al punto che fu costretto a chiudere l’attività. «Fu lo sfratto dai locali a concludere questa esperienza e di fatto sancì anche la fine dell’identità che mi ero costruito e che mi era appartenuta per cinquant’anni. Individuai allora nella notte e nei giovani la risposta alle mie esigenze sia economiche che di socialità e di condivisione del dolore che ancora mi portavo dentro.» Nacquero così le notti di Pick e Paik grazie alle quali, spiega l’ideatore, «tramutai in lavoro quello che era il mio personale piacere di stare al mondo: feste, feste, feste. La prima serata fu alla discoteca KGB, per il mio amico Jean Dean allora direttore dell’istituto Grenoble.» Di festa in festa “Pick e Paik” divenne sinonimo di divertimento e calda accoglienza per le notti di tanti napoletani più o meno noti. Pica diede vita, sotto lo stesso nome, al Baretto in via Ferrigni (via Belledonne a Chiaia) che gestiva ed animava insieme ai figli Filippo e Alessandra e ad una rubrica televisiva. «Ricordo - dice divertito Pica - che in quel periodo della mia vita le giornate non iniziavano mai prima delle due del pomeriggio.»

 

Gli incontri e le situazioni avuti nel corso di cinque anni di vita notturna sono stati raccontati da Pica in una serie di libretti ironici e arguti che passano in rassegna e catalogano, in una maniera socio-psicologia sui generis, i diversi tipi e personaggi della notte e della città. Da La notte è dura e non ci fa paura e La Donna Napoletana divisa per quartiere, pubblicati entrambi nel 1991 dall’editore Colonnese, Pica continua, nel ‘94, con l’analisi del Maschio Napoletano per concludere, l’anno successivo, con i “Notturni Napoletani”, entrambi editi da Dante & Descartes.

Il mondo notturno è impresso oltre che sulla carta anche nel cuore di Pica. «Grazie alla vitalità delle notti Pick e Paik e alla calda comunicatività dei giovani - spiega Pica - riuscii finalmente a venir fuori dal tunnel della perdita e alla fine di questo percorso che poteva sembrare una scelta azzardata fui premiato: nacque il piccolo Davide che oggi ha undici anni.

Con lui - chiarisce - ho ritrovato il mio punto di equilibrio. Dopo la sua nascita mi ritirai da ogni attività per dedicarmi completamente a lui. Ma - ricorda quasi con riconoscenza Pica - quando il piccolo Davide, a tre anni, mi chiese che lavoro facessi capii l’insufficienza pedagogica del modello che offrivo a mio figlio e vecchia passione per l’arte e per il sociale e diedi vita, nel 2000, alla Picagallery.»

 

 

La Picagallery

 

Il nuovo spazio è di fatto, come definito anche nel manifesto che ne sancisce la nascita, un’esigenza liberatoria di espressione che si forma originalmente nel centro del suo etimo, ovvero voce stessa di Pica. Dal 2000 ad oggi tanti sono stati gli eventi artistico-culturali che hanno trovato ospitalità nei locali ricavati da una vecchia stalla in via Vetriera: design, pittura, scultura, videoinstallazioni, poesie. «Ho ripreso a stare nel sociale attraverso l’arte e l’impegno ma in una maniera meno ideologica, più laica.» La nuova galleria d’arte cammina su tre differenti correnti di produzione: “la prima volta che”, “I’arte del dolore” e la “memory art”. ‘La prima volta che’ richiama l’esperienza già fatta negli anni Settanta e ospita le prime esposizioni degli artisti. «Ho voluto riproporre questo filone perché è un piacere vivere di volta in volta le sensazioni di chi sta per debuttare nel mondo artistico». ‘L’arte del dolore’ è il modo in cui Pica raccoglie amici e artisti degli anni passati che per varie difficoltà si erano ritirati non solo dall’arte ma dal mondo stesso, ma che «ritornano così alla produzione estetica e alla vita». Infine la ‘memory art’ in cui espongono gli artisti che hanno influenzato l’arte napoletana. «Per ‘la prima volta che’ mi piace ricordare la giovane Melania Canfora, per ‘l’arte del dolore’ Pino De Luca, per la ‘memory art’ Renato Barisani.» Nella Picagallery si riflette quindi la vita piena di iniziative e di incontri del suo ideatore, le passioni, una “vita sfumata” così come l’ha definita nel videobook pubblicato nel 2004 che raccoglie una serie di aforismi, rappresentati graficamente da Giuseppe Manigrasso, che esprimono la sua “filosofia” su Napoli, le donne, la vita, l’arte. «A ripercorrere in questo modo le tappe della mia vita posso dire di avere avuto la fortuna di capire l’arte e di camminare con essa, di viverla come forma estrema della categoria dello spirito, come totalità. Sempre presente anche nelle persone con cui ho prodotto, vissuto ed esteso il mio piacere della vita, spero allora che l’arte mi accompagni per I miei prossimi quarant’anni, sarà sicuramente così.»

Paola Silvestro

 

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NEW YORK 1981 – Alla Factory di Andy Warhol

 

Salvatore Pica fotografato da Andy Warhol

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Tutto iniziò il 23 novembre dell’anno 1980, con Lella (mia moglie), Filippo (nostro figlio), Lucio Amelio e Thomas Arana. Eravamo al Teatro 5. Carlo per il concerto del flautista Severino Gazzelloni che, appena concluso, mentre il pubblico applaudiva, inizia un fuggifuggi generale per una forte scossa di terremoto. Dopo qualche giorno, sull’onda della paura e del degrado morale che avvolgeva la nostra città, ci impegnammo a risollevarne le sorti. Ciascuno per il ruolo e per la propria competenza. Lucio decise di fare un appello a tutti gli artisti del mondo a donare una loro opera a Napoli. La realizzazione di tale progetto prevedeva il placet del mondo dell’arte americano e soprattutto di Leo Castelli e della sua ex moglie. I primi giorni di gennaio dei 1981 tutti a New York. L’occasione fu la prima mostra in America di Ernesto Tatafiore, di cui mi piace ricordare di essere stato il suo primo collezionista. Lucio, Michele Buonomo, Ernesto Tatafiore, Vittorio Baratti, Lella e io partimmo sparpagliati per ritrovarci poi a New York. All’alba dei miei primi 42 anni, caricammo Ernesto all’ingresso di Fuorigrotta della Tangenziale di Napoli. Per la mia atavica paura di volare, (conseguenza di turbe infantili), due giorni prima del viaggio, mi ero alimentato con Remy-Martin e pizzette di Moccia. Arrivati all’aeroporto di Fiumicino e salito in aereo, caddi in un sonno profondo e mi svegliai direttamente a New-York.

Superati i controlli dogana Ernesto ed io, sembravamo Totò e Peppino a Milano. Corremmo all’albergo. Lì i nostri amici ci aspettavano. Lucio e Michele, per loro motivi di lavoro presero l’aereo a Copenaghen. Furono sette giorni alla grande. Feste. night, ristoranti con piste di pattinaggio sul ghiaccio, ristoranti cinesi e italiani, cene in casa di amici di Lucio, commedie teatrali, concerti jazz, musei, gallerie d’arte, lunghe passeggiate per il Central Park per smaltire le sbornie notturne, I momenti più intriganti per me e Lella a New York con Lucio: l’incontro con Leo Castelli e la sua ex moglie. Fantastico. Entrammo nella galleria di Leo Castelli. Lucio non aveva nessun appuntamento; non appena Leo Castelli lo vide, lasciò tutto e tutti e corse ad abbracciarlo: (Lucio, dopo l’incontro a Napoli tra la cultura europea e quella americana. Joseph Beuys e Andy Warhol, con grande festa finale al City Hall di Dino Luglio, era entrato nella costellazione dei galleristi mondiali). Si andò insieme a colazione. Lucio e Michele parlavano inglese, io e Lella no. Seguimmo il ritmo musicale del loro linguaggio e le loro espressioni che andavano tra il perplesso e il convinto, ma alla fine una bottiglia di champagne sancì il Patrocinio Morale di Leo Castelli all’iniziativa di Lucio. L’altro momento indimenticabile fu sul terrazzo dei grattacieli delle 2 Torri, visita obbligata in quell’epoca. Io mi feci una foto stampata su una T-shirt che ho tenuto con me per più di dieci anni. Poi, consunta, la diedi via. Fatta la foto scendemmo. Al primo bar prendemmo un caffè e mi accorsi  di aver lasciato la mia borsetta da viaggio con soldi, passaporto e tutto, sopra alle 2 Torri. Michele mi aiutò a riprenderla. La borsetta, infatti, era ancora, a terra, vicino alla macchina fotografica. Che paura (prima), che gioia (dopo). Al ritorno a Napoli, consigliai e accompagnai Lucio dal piacevolissimo Notaio Ferdinando Tozzi che preparò lo statuto e stipulò la nascita della Fondazione Terrae- Motus. Con la visita alla Factory di Andy Warhol vissi tutta la letteratura fantastica e magica di E.T.A. Hoffmann. La Factory ti riportava dentro a vecchi castelli inglesi abbandonati con tutto il loro carico di storia e vissuto. Bussammo e ci aprì un signore con eleganza austriaca (il manager di Andy?), le presentazioni e immediatamente Lucio, con la sua eterna imprevedibilità, propose a Lella di farsi fare un ritratto da Andy, Lella accettò più per affetto verso Lucio che per il bisogno di apparire. Lella, purtroppo, ci lasciò a fine luglio dello stesso anno, ma fece in tempo a vedere il ritratto che io subito montai a parete. Fu l’ultimo suo piacere rivedersi con tutta la sua bellezza e il suo fascino. Mentre parrucchieri, truccatori ed assistenti si agitavano ai comandi dell’elettrico Andy, io giravo per i corridoi dello studio. Partendo dalle iniziali scarpette dipinte da Andy, vissi tutta la storia artistica fino agli anni ‘80 di Andy. I quadri e le foto erano depositati alla rinfusa nei corridoi e questo determinava un’andare con la memoria alla storia del consumo americano dal dopoguerra agli anni ‘80. Finito il rito della foto di Lella, Lucio mi disse che Andy voleva fotografarmi. Prima feci resistenza e poi cedetti per forma e comportamento verso Lucio. Il tutto mentre Andy ci guardava con i suoi occhi alla Peter Pan. Questo è quanto ricordo di un lontano viaggio a New York.

Salvatore Pica

 

 

Lella Pica fotografata e ritratta da Andy Warhol

 

 

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Alessandro Mendini

 

 

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Da quanti anni non sapevo più nulla di Salvatore Pica? Almeno da venti.

Ieri mi telefona.

Mi dice ti ricordi di me? Dico: “Sì”.

Mi dice per tanto tempo ho fatto un’altra vita. “Sì”.

Mi dice ricordi quando ti chiesi di esporre nel mio negozio alcuni dei tuoi oggetti? “Sì”.

Mi dice lo rifaresti anche ora? “Sì”.

Mi dice ho riaperto il negozio. Allora ci vediamo sabato 16 dicembre?

 

MSP,

Alessandro Mendini

Architetto

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