Le case di Virginia Woolf

 

di Giuseppe Bilotta

 

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Appassionato lettore di Virginia Woolf, tre mesi fa, in una libreria di Portalba, ho la fortuna di avere tra le mani il libro di Jean Moorcroft Wilson, VIRGINIA WOOLF, Life and London, a biography of place, pubblicato a Londra nel 1987 e mai tradotto in italiano. La sopracoperta azzurrina del libro è illustrata dal profilo di Virginia (giovane) contro una facciata di un edificio londinese. Più in basso, quasi al margine, la titolazione del volume è completata con l’indicazione: with Illustrations, Maps and Guides.

Subito ne intuisco l’importanza e l’acquisto. Emozionato, lo apro e rilevo che esso è pienamente enjoyable to read, godibile da leggere. Dalla prima all’ultima pagina. Con uno stile semplice ed elegante, l’autrice traccia un ritratto duplice della scrittrice e della città di Londra. Lo spicco dato alla scrittura e alla personalità di Virginia è pari allo spicco offerto dai bei disegni di tutte le case in cui Virginia ha abitato che correda l’opera e che Leonard Mc Dermid ha eseguito incontrando non poche difficoltà. Le case demolite, sono state da lui brillantemente riprodotte studiando vecchie fotografie d’epoca.

Superfluo dire che i disegni di Mc Dermid colpiscono di più in questo libro estremamente affascinante: tutti riprodotti a vivo, in bianco e nero, con una nitidezza smagliante. La didascalia di ciascuno di essi indica sia la piazza o la strada del quartiere dove ogni casa sorge, il tempo che Virginia vi ha vissuto e le cose e le opere più notevoli lì realizzate. La loro dimensione e la loro vividezza che fisso ammirato mettono in moto la mia immaginazione.

Immagino come Virginia e Leonard si sono mossi nelle stanze delle case con programmi comuni e con alterni stati d’animo nel corso di una giornata. La prima immagine è quella di Virginia e Leonard, sposati, che fanno il loro ingresso nell’appartamento a Clifford’s Inn. Entrati, guardando intorno e toccando le pareti hanno pensato, per caso, che gli edifici, simboli di qualcosa che racchiude, protegge, vivano per noi umani e abbiano addirittura, come scrive Alain de Botton, le loro lune e le loro idee? (Personalmente, sin da ragazzo, ho sentito che le case, con l’aspetto protettivo della Grande Madre, ci parlano e ci comunicano una visione specifica di felicità).

Entrato nella “magica” atmosfera woolfiana, vi sono rimasto a lungo a fantasticare sui vari momenti di essere della scrittrice e sulla vitalità di Londra che stimola la sua immaginazione. Prima di ogni cosa, però, devo dire che subito mi è venuta l’idea di fare una mostra di queste case. E’ stata come una folgorazione. Quasi provocata dallo spirito di Virginia entrato in contatto col mio. Per empatia? Per simpatia reciproca tra autore e lettore? Perché chiedermelo? Con Virginia, figura eterea, tutto è possibile. Nessuna meraviglia. E’ nel tono degli “amorosi sensi” di foscoliana memoria. Non mi stupisco nemmeno del fatto – ammesso che sia così – che l’unica copia del libro acquistato fosse destinata a me da tempo. Era lì dove l’ho trovata.

Giuseppe Manigrasso con la sua scultura, Checco Moroso con i suoi modelli e la Picagallery, mi hanno permesso di realizzare questa empatia.

Ricordo a tutti i lettori di Virginia che l’editore di questo libro è Cecil Woolf, nipote di Virginia.

Giuseppe Bilotta

 

Londra


Londra. Come una caput mundi? No. Per Virginia è più semplicemente “the centre of things”, il centro delle cose. Ciò non significa che sia solo un centro commerciale o sociale, ma il centro della vita stessa. Londra ha per lei, come osserva Moocroft Wilson, “un significato mistico; è un simbolo di ciò che variamente lei può chiamare “vita”, “verità” o “realtà”, una qualità che cerca di ritrovare nella sua propria vita e trasferire nel lavoro”. Londra, infatti, non solo le offre lo spunto necessario per scrivere i propri libri, ma anche il soggetto per essi. Nel diario scrive: “Londra perpetuamente attrae, stimola, ispira a scrivere una commedia, un racconto, un poema senza alcun problema, salvo quello di muovere le mie gambe attraverso le strade”. La città, dove si concentra e freme notte e giorno, la vita di milioni di individui, con le loro storie e le loro abitudini, con le loro speranze e le loro preoccupazioni, coi i loro aspetti sempre nuovi e sorprendenti, nelle strade e nelle piazze, nei parchi pubblici, nei battelli che vanno su e giù per il Tamigi, nel metrò, negli autobus rossi a due piani, è per Virginia fonte inesauribile di stupore. “Londra è un incanto” annota in un’altra pagina del diario. E in un’altra ancora: “esco e pongo il piede su magico tappeto giallo fulvo e mi trovo rapita via, nella bellezza, senza neppure alzare un dito. Uno stupore le notti, con tutti quei portici bianchi e i vasti cieli silenziosi. E la gente che sbuca dentro e fuori, leggermente, piacevolmente, come i conigli”.

Come resistere a tali spettacoli? E’ bello e rilassante camminare per osservarli e ricordarli. Magari per trascrivere nel diario l’emozione che hanno suscitato in lei. Perché lei non cammina solo per guardare, ma anche per pensare, per elaborare nuovi schemi narrativi, per “fratturare” la trama. Eccola in cammino per Southampton Row, tra frastagli di sole sul selciato, “a declamare frasi e a vedere scene”. Con un cappello di paglia a larghe tese calato in testa che le ombreggia il viso fino alla bocca, indossa una giacca beige su camicia a pois e una gonna di tweed. Avanza con un comportamento tra il fiero e il fluttuante che colpisce. La gente al suo passaggio si stupisce e si volge a guardarla. Da quale mondo giunge? Leonard nella autobiografia scrive che lo stupore che suscita negli altri è in un che di etereo e inaccessibile che emana dalla sua figura e che la distingue dagli altri. “Cammino facendo frasi” annota mescolata nella folla di Oxford Street o a Cheyne Walk, davanti alla casa di Carlyle, dove è “eternamente febbraio”.

All’amica Vita Sackwille-West descrive le sue passeggiate londinesi come “reviving fires”, rinascenti fuochi. Bella immagine che fa capire come lo spazio urbano, con i suoi colori e clamori, possa eccitarla e ravvivare ad ogni passo la sua passione per Londra.

Se Londra stimola la sua immaginazione da un lato, dall’altro, tuttavia, rischia di esaurirla. Può mettere a prova i suoi nervi. Il ritmo frenetico della grande metropoli può risultare dannoso. Dal momento che la sua salute oscilla tra “sanity and insanity”, sanità e insanità mentale, uno stimolo eccessivo può portare ad un nuovo crollo. Allora, benché lei brami, da narratrice e flaneuse, girare per Londra per rinnovare l’amore che nutre “per certi vicoli e cortiletti tra Chancery Lane e la City”, lei ha anche bisogno di lasciare Londra per portare a termine un altro lavoro già iniziato ed essere pronta a sopportare l’enorme sforzo immaginativo che esso comporta. Va in campagna. Il rifugio che l’accoglie, col verde intorno del giardino, è la Monk’s House, a Rodmell, nel Sussex. Qui Virginia lavora in pace.

L’abbandono (temporaneo) di una casa di Londra per una casa di campagna, frequente nell’intero arco dell’esistenza di Virginia, è ritmato dalle normali esigenze esistenziali. Che, oltre al lavoro editoriale, è dovuto a visite ad amici e parenti, partecipazioni a ricevimenti, serate a teatro e a concerti, spostamenti per conferenze che avvengono tra Londra, località di campagna e altre città d’Inghilterra.

In tali trasferimenti le case di Londra e le case fuori Londra, legate al rapporto uomo-universo, costituiscono uno spazio vivo e vivificante, una vera architettura respiratoria, in armonia con le forze vive e le geometrie della natura. Per questa ragione, oltre a rappresentare sia un punto di arrivo che di partenza, sono tutte importanti per ciò che hanno significato per Virginia e per noi, che le vediamo (dall’esterno) e sappiamo quanto tempo lei ha vissuto tra le loro mura e quali opere vi ha scritto. Non possiamo visitarle, per ovvie ragioni, ma è, comunque, esaltante fare un passo indietro nel tempo, percorrere un tratto di Londra mentre il Big Ben batte un quarto, come nei romanzi di Mrs. Dolloway e The Years, a segnare gli effetti del tempo, fermarci davanti a Brunswick Square, Bloomsbury, dove Virginia ha incominciato a scrivere il primo romanzo, The Voyage Out, e immaginare di vederla uscire insieme con l’amico, Rupert Brooke, il giovane poeta che muore in guerra nel 1915. Oppure mentre si intrattiene in salotto con l’altro suo grande amico, Strachey Lytton, “venuto oggi per il thé ed è stato molto simpatico, subendo tutte le mie critiche alla vita di Cambridge e agli …ums”: (riferimento al gruppo degli Apostoli, gli intellettuali di Bloomsbury di cui Thoby, Adrian, Virginia e Vanessa sono stati i principali animatori). Sul The Bloomsbury Group, destinato a dominare per oltre un trentennio il panorama culturale non solo londinese, sono stati scritti dei libri. Tra i loro autori figura anche Quentin Bell, altro nipote di Virginia e suo biografo.

Virginia ha molto amato Londra. Forse ha pensato di concludere lì la sua giornata terrena. Così non è stato. Nel ricordarlo, il pensiero corre alla Monk’s House, a Rodmell, dove Virginia si è levata da poco per vivere il suo ultimo giorno di vita. Non lo vivrà per intero. Verso mezzogiorno sarà concluso. Ricordare le sue ultime ore e le cose che ha fatto mi sembra un modo degno per concludere il capitolo Londra.

Eccomi davanti alla Monk’s House, a Rodmell. E’ un limpido e freddo giorno di marzo del 1941. Virginia esce fuori, cammina nel giardino, spinge la porta di legno – dietro la quale Leonard, vecchio, in una foto, si appoggia e guarda lontano – e si avvia per la solita passeggiata. L’ultima. Sul tavolo dello studio, con vista sul giardino, ha lasciato due lettere, una per Leonard e una per Vanessa, le persone più amate, in cui spiega che continua a sentire le “voci” che la opprimono. Portando con sé il bastone da passeggio si dirige verso l’Ouse. Giunta sulla riva del fiume si infila una grossa pietra nella giacca e va incontro alla morte: “l’unica esperienza che non descriverò mai”.

Giuseppe Bilotta

 

I modelli di Checco Moroso

 

 

L’aspirazione ad una bellezza ideale e il senso della forma e, quindi, quello della “proporzione”, sono in Checco particolarmente motivati e coltivati: gli agevolano il perseguimento degli ideali e l’attuazione dei piani.

Probabilmente per tali ragioni i modelli delle case di Virginia che egli ha magistralmente realizzato hanno qualcosa in più: il potere di commuovere. All’istante. Soprattutto artisti, poeti e animi sensibili. Muovono dal cuore e puntano al cuore. Come i più grandi pensieri. La maestria che li modella con semplici cartoni splendidamente colorati di rosa e beige è dovuta, senza troppo esagerare, ad uno stato particolare di grazia in cui Checco ha operato, quando l’idea del progetto lo ha folgorato e infervorato ad un tempo. Munito delle foto dei disegni di Leonard Mc Dermid si è messo subito all’opera tra luglio e agosto scorsi dando forma ai suoi prodotti con un ritmo esecutivo esaltante che non scende mai di tono. Eccolì lì, appena ultimati, davanti a me. Li osservo. Convincono a tal punto che sembra che Checco li abbia creati esclusivamente col suo talento immaginativo e il suo gusto senza ricorrere a schizzi preparatori o altri studii. Indubbiamente ha tenuto sotto occhio i disegni di Mc Dermid per un orientamento di tipo formale, ma l’esecuzione di ogni modello è opera sua e ascrivibile a suo merito.

E’ chiaro che tutti i modelli muovono dalla tradizione classica (intendendo con questa parola la necessaria lezione di grandi opere del passato), per arrivare, senza rotture polemiche, ad una personale sintesi interpretativa. Il loro equilibrio materiale e tonale è perfetto. Commuove. Lascia negli occhi e nel cuore il segno della perfezione. Gli elementi architettonici variano secondo il loro ordine e il loro stile. Tale varietà non crea confusione. Tutt’altro. Essa è positiva. Nel senso che offre una dimostrazione di potenza realizzativa riscontrabile nella modellazione della intera serie. Che affascina il fruitore raffinato di prima acchito e probabilmente anche il fruitore meno esigente. Gli oggetti abitati dalla bellezza sono infallibili: nessuno sfugge alla loro seduzione. Al “coup de foudre” che spesso nasce tra le parti.

Di ciò è consapevole Checco che sa proporzionare l’esteticità di ogni modello. Adeguatamente. Senza eccezione. Sempre con la stessa intensità. A colpo sicuro. Ne consegue che ogni modello affascini sia in gruppo che isolatamente. La finezza che lo distingue è pari alla finezza che distingue gli altri: è come se una corrente di energia passi da un modello all’altro. Lo sguardo, tuttavia, continua a passare dall’uno all’altro ammirando la fattura armoniosa di questo o quel dettaglio.

Se la casa di Brunswwick Square Bloomsbury, coi i suoi due comignoli sul tetto che sembrano due piccoli torrioni di guardia, si lascia apprezzare per le gronde, gli architravi, le finestre, i balconi con ringhiere, l’ingresso con arco a tutto sesto con scala esterna e finestrelle sottostanti protetti da una inferriata simmetrica mirabilmente retta, la casa di Clifford’s Inn, a tre piani, coi suoi cernierati finestroni, ha tutta l’aria di un convoglio che misteriosamente è fermo in quel posto dove lo si vede per una qualche misteriosa ragione.

Della casa di Gordon Square, Bloomsabury, che fa pensare ad una governante impeccabile che si presenta all’appello del Sir da cui dipende, colpisce subito il balcone con parapetto, balaustrata, mensole, posto sul lato sinistro della facciata finemente eseguito, come finemente eseguiti sono i tre balconi centrali con ringhiere. E della Hogarth House che dire? Splendida come una Lady Ottoline Morrell, “che adora le arti” e se ne sta un po’ in disparte senza partecipare ad una accesa discussione tra i membri del gruppo di Bloomsbury, a casa di Virginia, Tavistock, Square, sono preso dalla perfetta linearità delle gronde, dall’ingresso a doppio battente, dallo stipite e dalla recinzione ferrata. Monk’s House, a Rodmell, col suo tetto a schiena d’asino e i comignoli che dialogano a breve distanza tra loro, piace per la sua semplicità strutturale: tipica casa di campagna comoda, sicura, tranquilla dove spendere tranquillamente il tempo nel lavoro e nel riposo. The Round House, invece, che sembra edificata per essere abitata da una fata, è una vera e propria casa fiabesca: piccola, graziosa, col tetto esagonale con qualcosa di orientale nell’impostazione e un tetto spiovente. I muri esterni sono decorati con elementi geometrici vagamente incaici, mentre ingresso e finestrone laterale sono disegnati entrambi con arco scemo.

L’architettura è per lo più di epoca vittoriana. Durante il lungo regno della Regina Vittoria l’urbanistica di Londra conobbe un grosso incremento. Sorsero nuovi quartieri residenziali. Numerosi edifici furono costruiti in tutta l’area urbana che si ampliò notevolmente. L’impero britannico ancora in piedi nella seconda metà dell’Ottocento celebrava gli ultimi fasti della sua potenza coloniale rendendo Londra più grande e più bella.

Le case dove Virginia ha abitato risentono di questo respiro vittoriano; ma, la loro ricostruzione in miniatura, per così dire, risente ancora più del puro sentimento “edificatorio”che Checco vi ha impresso sia col cuore che con la scienza. E’ innegabile.
I modelli di Checco ricordano che l’habitat è lo specchio e il prolungamento non solo dell’esistenza di Virginia, ma anche della nostra in ogni luogo del mondo. In tal modo, essi fanno riscoprire il giusto rapporto tra un nostro modello interiore e l’ambiente circostante. E’ così. A tale riscoperta contribuisce anche la plasticità ad alta definizione che Checco sfoggia. Insuperabilmente. Dietro la quale, ovviamente, si avverte lo studio euclideo della forma portato a graduale perfezionamento nel tempo con un supporto matematico e prospettico neo-rinascimentale. Tali qualità, nel panorama dell’architettura moderna, assicurano un posto di spicco al linguaggio di Checco. Riconoscerne il valore significa che, immortalando nell’architettura la nostra relazione col cosmo, partecipiamo a un opera più grande.

 

Giuseppe Bilotta

 

VIRGINIA WOOLF e VITA SACKVILLE-WEST

Virginia e Vita si conoscono a una cena in casa di Clive Bell. E’ il 14 dicembre 1922.
L’incontro è organizzato da Clive che, intuito le doti di Vita, informa Virginia che la Signora Nicholson ammira le sue opere. Quando Virginia ha di fronte a sé “la deliziosa, dotata e aristocratica Sackville-West”, la prima impressione che ne riporta è acuta e prudente insieme.
Nel diario scrive che la trova “non molto confacente ai miei gusti più severi, florida, baffuta, variopinta come un pappagallo, con tutta la disinvolta grazia dell’aristocrazia, ma priva del genio dell’artista”. Parole che fanno subito centro: un giudizio che non fa una grinza. Preciso. Ciò chiarito, aggiunge: “Ma io potei mai frequentarla?” Perplessità momentanea che non esclude la possibilità di una frequentazione. E’ un po’ come prendere tempo. Più per riflettere sulla novità in sé dell’incontro che per capire meglio con chi tratta: Virginia ha capito e “visto” tutto di Vita col raggio laser del suo sguardo fin dal primo momento.
Vita, invece, è incantata da Virginia. Quattro giorni dopo la invita a cena a Ebury Street con Clive e Desmond Mac Charthy. Il giorno dopo scrive al marito, Harold (in missione diplomatica a Losanna): “Adoro Virginia, semplicemente. E tu pure saresti incantato dal suo fascino e dalla sua personalità. E’ molto semplice, però dà un’impressione di grandezza. Non c’è in lei la minima affettazione: nessuno ornamento esteriore – anzi, veste in modo orrendo. A tutta prima ti sembra bruttina, ma poi scopri in lei una sorta di bellezza spirituale che ti s’impone, e tu la guardi come innamorato. E’ al tempo stesso distaccata e umana; sa star zitta finché non ha qualcosa da dire, e poi la dice supremamente bene”. Dopo questi tentati cenni, da portrait psychologique, da cui emerge chiara la volontà della scrittrice di studiare Virginia e sondare la sua grandezza, confessa che: “Raramente mi sono tanto invaghita di qualcuno, e credo io le piaccia. Perlomeno, mi ha invitata a casa sua a Richmond. Darling, m’ha proprio rubato il cuore”. Lo “studio” di Virginia termina con una ammissione d’innamoramento che comprende sia la percezione (netta) di non spiacere a Virginia, sia la soddisfazione di essere stata invitata ad andarla a trovare.
Quando s’incontrano Virginia ha quarant’anni e Vita trenta. Vita è già nota come poetessa e scrittrice. Virginia ci informa che “ha terminato un altro libro, pubblica con Heinemann, conosce tutti”. Autrice di successo e donna affascinante. Quentin Bell assicura che è bellissima, “di una bellezza pigra, maestosa, piuttosto malinconica”. Gli occhi scuri e una certa grazia nel portamento rivelano “in lei una vena esotica, il sangue di qualche tenebroso gitano spagnolo”.
Con Quentin Bell non sono d’accordo. Per me non è bella, né tantomeno bellissima, a giudicare dalle fotografie che la ritraggono sia da giovane che da donna matura che osservo. Il suo viso ha tratti decisamente mascolini. Con taglio corto di capelli e abito maschile indosso è un uomo. Non inganna nessuno. Il modo di sedere, di accavallare le gambe, di posare e guardare è virile. Dalla sua persona fisica è assente ogni traccia di leggiadria femminile. Seduta di profilo davanti allo scrittoio nella sua stanza di lavoro a Sissinghurst, in veste da camera, nella piena maturità, è un uomo che volge lo sguardo verso Gisèle Freund che la fotografa. Dell’uomo sono l’espressione marcata e annoiata, i polsi larghi del braccio, le caviglie ingrossate delle gambe. Neppure i capelli che le cadono parzialmente sulla fronte e sulla guancia sinistra sono sufficienti a dare di lei una sembianza di donna. Davanti a me ho un uomo che offre un’immagine di sé incolore e spenta. Da nobile di campagna che si degna appena di ascoltare ciò che un domestico le comunica dal fondo d’una stanza. Dov’è il tanto decantato fascino? Io non lo vedo. Forse è stato immaginato o favoleggiato da amici e ammiratori nei salotti della mondanità londinese?
L’impressione di “virilità” si accentua notevolmente in un’altra fotografia che la ritrae ai piedi della torre della sua casa. Vestita da amazzone, con cane pastore tedesco accucciato vicino a lei, il viso, allungato, è più virilmente squadrato e marcato: sembra un barone che si fa sulla soglia per accogliere l’arrivo d’un visitatore, pronto a sfoderare un sorriso d’occasione e a conservare poi un gelido sussiego patrizio, mentre lo guida all’ispezione delle trecentosessantacinque stanze di Knole immerse nel silenzio e nella penombra dell’ora.
Persino nella foto di un Orlando intorno al 1840, di un Orlando dalle molte “lives” e dai molti “selves”, Vita, seduta, con cappello a larga tesa in testa che arca la fronte con folte sopracciglia e dita aperte della mano sinistra tra mento e guancia, nel classico atteggiamento del melanconico, è un giovane uomo che scruta un punto lontano nel vuoto. Soltanto la blusa a fiori che indossa su gonna scozzese le conferiscono una parvenza femminile. Tuttavia, le fattezze del volto, lo sguardo degli occhi, ansioso e inquieto, come in uno straniamento, sono marcatamente maschili: come quelli di un giovane manager, travestito da donna, per partecipare a un ballo in costume in una villa in collina.
La mascolinità di Vita la nota anche Virginia: “lei è un granatiere, dura, bella, virile…”
Nota ancora che lei “esibisce, con pari noncuranza, una bruna peluria sulle guance, accese dalla couperose”. Però ha “un paio di bellissime gambe”. E aggiunge: “Lei mi piace, e mi piace stare con lei e il suo splendore”. Le piace anche come lei “incede con passo maestoso sulle sue gambe simili a alberi di faggio”. Ai suoi occhi appare “luminosamente rosea, un grappolo d’uva, una perla sospesa”. Immagini poetiche limpide. Quasi da Cantico dei Cantici. Inequivocabili. Scaturite spontanee da emozioni oscillanti tra erotismo e estetismo. Per dirla più pedestremente da una incipiente attrazione fisica. Tutto qui. Lapalissiano. Poco può valere la considerazione che in tale trasporto sia celato “il segreto del fascino”. Senza nulla togliere a tutto ciò che di Vita fisicamente l’attrae, sembra, tuttavia, che le gambe l’attirino di più. Ad ogni modo, Vita è vista come “una vera donna” in cui è “una certa voluttuosità”. Per cui non può fare a meno di ammettere che “le piace anche la sua presenza e la sua bellezza” e chiedersi subito dopo: “Sono innamorata di lei?” A questa prima domanda segue immediatamente la seconda: “Ma cos’è l’amore?” a cui non sa dare una risposta adeguata. Poi passa ad altre riflessioni e osserva: “Il fatto che lei è innamorata di me mi eccita, mi lusinga e mi interessa”. In tale interesse rientra senza dubbio il bisogno di “protezione materna” che già riceve da Leonard e Vanessa. Accertato che su tale sentimento può contare, è pronta a cedere all’amore di Vita.
Per Virginia, come da millenni accade, l’amore nasce alla vista della bellezza. In partenza tutto è nell’occhio: il vis-à-vis tra le due scrittrici costituisce la parte iniziale. Nonostante le reciproche riserve, le due si piacciono e si cercano per continuare a osservarsi. La strategia del corteggiamento amoroso inizia con inviti a cena coi rispettivi mariti, scambi di libri e complimenti reciproci. I loro matrimoni si equivalgono per la libertà che si concedono a vicenda: Harold coltiva amori omosessuali e Leonard ha cancellato la voce sesso dal rapporto con Virginia quando si è reso conto della sua frigidità.
Dall’approccio al contatto fisico passano due anni. Il rapporto sessuale ha una data precisa: il 17 dicembre 1925 durante la visita di Virginia a Long Barn. Sullo stesso avvenimento, il 21 dicembre, al ritorno, Virginia nel diario annota: “Vita per tre giorni a Long Barn, da dove Leonard ed io siamo tornati ieri. Queste lesbiche amano le donne; nella loro amicizia non manca un che di sensuale”. Nella proposizione che segue alla prima annotazione sembra che Virginia dimentichi la propria “safficità” espressa carnalmente con Vita e si stupisce che nell’amicizia delle lesbiche non manchi “mai un che di sensuale”. Subito dopo, come riportata bruscamente alla realtà dell’atto sessuale consumato, si riprende e lo giustifica col dire: “In breve, le mie paure e le mie inibizioni, la mia “impertinenza”, il mio solito egocentrismo nei rapporti con persone che, forse, non mi vogliono e così via, erano soltanto stupidaggini, come diceva Leonard; e, in parte grazie a lui (lui mi ha fatto scrivere) chiudo in bellezza quest’anno di dolori e ferite.
La conclusione “in bellezza” di questa nota è, forse, un’allusione all’iniziata relazione con Vita? Probabile. Nulla di certo. Certo, però, è il periodo del loro rapporto amoroso che va dal 1925 al 1929. Certo anche il loro viaggio in Francia. Partono da Monk’s House il 24 settembre 1928. Parigi. Giunte nella capitale francese è facile immaginare che dopo una puntata alla Tour Eiffel passeggino fino alla Place de la Concorde e da lì puntino al Louvre, Sala L, ad ammirare la famosissima Venere di Milo, a pranzare alla Vigne, bistrot del 1900. Un po’ di follia al Lido, con cena-spettacolo internazionale e flanerie sul Lungosenna tra i bouquinistes, venditori di stampe e libri usati.
Una vacanza piacevole che avviene in concomitanza col caso Radclyffe Hall che esplode, come racconta Quentin Bell, “sei giorni prima della pubblicazione dell’Orlando, e cinque giorni dopo che Virginia si era identificata, sia pure in circostanze diverse, con la causa dell’omosessualità”. Radclyffe Hall scrive il libro, The Well of Loneliness, che desta scalpore al suo primo apparire. E’ la storia di un amore lesbo che oggi non scandalizza più nessuno, ma che allora, nel 1928, è sequestrato dalla polizia. L’autrice è trascinata in tribunale.
A tale riguardo, Virginia nel diario scrive che una sera lei e Morgan, ospite alla Monk’s House per il week-end, si ubriacano e parlano di sodomia e lesbismo. Poi aggiunge che la discussione prende “lo spunto dalla Radclyffe Hall e dal suo meritorio e tedioso libro”.
Al ritorno in Inghilterra, Virginia avverte che le giornate parigine vissute in intimità con Vita l’hanno arricchita sia sul piano personale che su quello artistico. La relazione produce effetti positivi. Ritemprata, scrive ad Harold definendo “perfetta” la settimana trascorsa insieme con l’amica e continua dicendo che “Vita è stata un angelo con me, si occupava dei treni, pensava alle mance, parlava perfettamente il francese, mi assecondava sempre, qualunque fosse il mio umore, si mostrava costantemente dolce, sempre divertente, amabile”. Parole che manifestano tutto il calore e il compiacimento provati da Virginia per il comportamento affettuoso e protettivo di Vita. Indubbiamente Vita l’affascina con la sua maturità, la sua sicurezza, la sua educazione. Elegante, disinvolta, belle maniere, glamour da star del jet-set internazionale del tempo. Baronessa, cresciuta nel Kent, a Knole, una delle più grandi dimore patrizie d’Inghilterra, Vita, osserva Jean Dunn, “incarnava agli occhi di Virginia i secoli di storia inglese che l’avevano resa così negligentemente privilegiata e che la circondavano col fascino del passato”.
Vita, dal canto suo, come afferma anche Quentin Bell, è molto innamorata di Virginia. Sulla parola “amore” sarei cauto. Ho la sensazione, invece, che sia soprattutto il temperamento ardente di Vita a spingerla mascolinamente a desiderare Virginia: avere a letto soddisfazione fisica. Su come goderla non è difficile immaginarlo. L’ardore è figlio della sessualità che in Vita è molto spiccata, più verso il proprio sesso maschile che quello femminile. Di questa conquistadora, bisessuale, che ha messo al mondo due figli, si può dire che, esaurita la fase di sessualità femminile, subentri quella maschile.
Sulla sessualità, a partire dai saggi di Freud e dalle sterminate pubblicazioni sull’argomento, molto è stato detto. L’impegno scientifico profuso è lodevolissimo. Ciò che, però, dice sul tema Karl Kraus, che non è sessuologo di professione, ma solo un grande scrittore e polemista, mi sembra si addica a Vita. Kraus, difensore delle prostitute e degli omosessuali, sostiene che la donna è un essere totalmente sessuale: qualunque cosa essa desideri o faccia deriva dalla sua essenziale sessualità. Sotto questo aspetto la donna è l’opposto dell’uomo. L’uomo ha dei bisogni sessuali, la donna è sessualità. Come tale emoziona, ma è irrazionale. Da irrazionale, non può controllare la propria natura sessuale. L’uomo, invece, razionale, lo può. Almeno in potenza. La sessualità è a vara gradazione. Non so se quella di Vita abbia raggiunto il grado incontenibile della sessualità di Messalina. Giovenale, in versi potenti, descrive l’imperatrice romana mentre di notte si reca a soddisfarla nei lupanari di Roma.
Tale rapporto, comunque, trasferito sul piano ideale della femminilità e della mascolinità, si equivale. L’androginia di entrambe, superiore nell’una e inferiore nell’altra, si fonde in armonia come sostiene Aristofane nel Simposio platonico. In tale ottica si può capire quali pulsioni determinano la sessualità di Vita che è la sua vera natura. Virginia, che è meno sensuale di Vita ma molto più profondamente intellettuale, ciò lo capisce e vi si adegua. Anche perché la mascolinità dell’amica bilancia perfettamente la propria.
Il corso di tale relazione esalta di piacere Vita. L’euforia erotica è al colmo. Nelle lettere che scrive a Clive Bell parla sempre in termini ammirativi di Virginia. Per lei Virginia è “più incantevole che mai” e sempre per lei, “incredibilmente deliziosa e fragile”, andrebbe “in capo al mondo”. Tali espressioni sembrano, tuttavia, dettate più da una passione fisica che da un amore puro, una passione che dura finché il suo fuoco dura. Quando quest’ultimo si spegne, si riaccende più tardi per un’altra: come puntualmente avviene per Vita.
Così si verifica anche con Virginia. Il loro legame erotico si trasforma in amicizia che dura fino alla morte di Virginia. Abile com’è nel conquistare, Vita non ha difficoltà a indirizzarsi verso altri amori. Basta guardare intorno: una nuova amante è sempre a portata di sguardo. L’alta società che frequenta offre ampie possibilità di scelta.
Nel vederla con una nuova amante al seguito, Vanessa scrive a Virginia: “Erano secoli che non vedevo Vita. Si era semplicemente trasformata in Orlando, ma all’inverso: voglio dire che si era trasformata in un uomo con baffi folti e un aspetto molto autoritario e, nel complesso, certo, molto più grande”. Le osservazioni di Vanessa collimano con le mie: nella figura imponente e seducente di Vita si nasconde un uomo, un uomo che si chiama Orlando (e che non si trasforma più in donna come avviene nel romanzo).
Virginia, comunque, affascinata da Vita e dalla loro love story scrive Orlando: “una biografia che cominci nell’anno 1500 e continui fino ad oggi” per celebrare l’esistenza e la personalità dell’amica. Il libro abbraccia tre secoli e mezzo e presenta Vita all’inizio nei panni di un ragazzo per poi trasformarla in una donna. Scritto anche con un piglio spavaldo per far conoscere urbi et orbe il suo attaccamento a Vita. Dedicato a Lei, il romanzo è illustrato con fotografie di Vita nei panni, sia maschili che femminili, di Orlando e testimonia sia l’amore di Virginia per Vita, sia episodi della sua vita quotidiana in quegli anni. Il libro, che le fa “accantonare tutto il resto”, cresce di un capitolo nuovo ogni volta che Virginia piomba a Knole per vedere Vita ed estorcere da lei confessioni sul suo passato. Sollecitata, Vita si apre: parla delle sue vicende amorose con Geoffrey Scott e con Violet Trefusis che nel libro appare come Sasha, la principessa russa, le fornisce tutti quei particolari interessanti che Virginia utilizza per la stesura dell’opera. Vita sempre aperta a confessare e Virginia sempre “chiusa” a non rivelare come si sviluppa il lavoro.
Meglio non anticipare nulla. Lavorare. Concentrata nel silenzio del proprio studio. La sorpresa sarà maggiore quando la prima copia (stampata) arriverà a Knole per pacchetto postale della Hogarth Press seguita a breve distanza da Virginia con manoscritto, in dono.

Giuseppe Bilotta