Il posto delle geografie private.

Lo direbbe il nome stesso: PicaGallery è la galleria di Pica, ma non è vero, perché in realtà è di più, è di meno o quantomeno è altro.

PicaGallery è un posto, una cosa che ho visto nascere e che posso raccontare, perché, letteralmente, ci ero seduto su mentre accadeva, lavoravo nello stesso edificio e sotto le mie scarpe due locali affacciati sulla strada, pieni di arredi di design, un po’ alla volta diventavano un posto.

Non si è trattato di una nascita consueta, di quelle che avvengono in un dato momento, seppur dopo un periodo di preparazione. Si è trattato piuttosto di una metamorfosi silenziosa, sotterranea, per certi versi insidiosa, il divenire lento e inesorabile di uno spazio che da luogo si è fatto posto, un qualcosa che ha perduto la funzione originaria non per prenderne una nuova o per non prenderne alcuna, ma per determinare una dimensione diversa, senza carattere eppure piena di caratteri.

Un posto è uno spazio di geografie private, qualcosa di differente sia dai luoghi, spazi che hanno una “vocazione” e che per questo sono emotivamente vissuti, che dai nonluoghi, che, come ci ha insegnato Marc Augé, sono spazi privi di identità e di storia, in cui una molteplicità di individualità si incrocia senza mai entrare in relazione. Un posto è invece uno spazio dove si va non per fare qualcosa, né per incontrare qualcuno, ma semplicemente per starvi, per entrare in relazione con esso e con tutto/tutti ciò che lo popola. Perché lo stare è di per se stesso un fatto e quindi è bastante, è sufficiente, non necessita né di un cosa, né di un come, né di un perché. Un posto è un qualcosa che non ha funzione e che non prevede vocazione. Piuttosto, è un collettore, un raccoglitore di parole, di sensazioni, di fatti, di impressioni, di suggestioni, di pensieri, di appunti, di note, di ritagli, insomma di cose che si accumulano senza fare storia, che si tracciano e che producono frammenti, cose che una volta terminate il proprio tempo restano immobili come fotografie, come mappe.

Ecco PicaGallery è questo, un posto di geografie private che si consumano nell’atto stesso in cui esistono. Il loro fine è essere. Nient’altro.

Pica dice che il suo posto ha degli indirizzi, delle poetiche che ne determinano in qualche modo il senso, il genius loci, le atmosfere che vi si respirano e che si rinnovano con i simboli e i colori e i segni che di volta in volta lo popolano: l’arte della prima volta, l’arte del dolore, l’arte delle memoria. Poetiche che in qualche modo condizionano le geografie private che lì dentro vanno a condensarsi: quelle degli absolute beginners, dei debuttanti assoluti; quelle dei ricomincianti, di chi trova nel trauma un nuovo inizio diverso dal passato; quella dei riemersi, dimenticati, perduti, sconfitti o semplicemente obliati, che nelle pieghe della memoria riprendono forma e tornano.

Ma ho come la sensazione che ci sia qualcosa di sbagliato in ciò che del suo posto dice Pica (lo chiamo sempre così, solo per cognome, non so perché, ma mi viene più facile. È un poco come Marlowe l’investigatore o come Maigret o come Montalbano, figure per cui il nome di battesimo da solo non può bastare, li confonde troppo con altri, mentre loro sono talmente umili nel loro essere unici, che quasi debbono generalizzarsi nel cognome, scomparire in esso, stemperandolo al punto tale da riempirlo di un significato nuovo, imprescindibile da loro. Non straordinari, ma unici.).

Qualcosa di doppiamente sbagliato, perché in un posto le geografie private che vi si raccolgono sono il frutto di un insieme di volontà, persone che dicono: voglio stare in quel posto soltanto per starvi e nulla più. E poi perchè sono le parole stesse a tradire Pica e a rivelare che più che le poetiche o le arti conta il lessico che egli usa per dire di quelle poetiche e di quelle arti.

Pica non parla di debutti, ma di prime volte, una formulazione verbale che svuota del senso pubblico un atto, per trasferirlo in una dimensione esclusivamente privata. Debuttare significa entrare in qualcosa di esistente apportandovi una novità, determinata non tanto dal suo contenuto, quanto dall’atto stesso di entrarvi. Il debuttante si presenta agli altri, ad una moltitudine, da cui è osservato, misurato, giudicato. E questo stesso meccanismo relazionale determina in chi debutta una sorta di spavalderia, un piglio coraggioso, che trova origine nella paura, la sfida gaglioffa di chi dice: guardate, sto entrando, sto venendo a cambiare il vostro mondo.

Ma “la prima volta” è un’altra cosa, è un’iniziazione, qualcosa che ha a che vedere solo col proprio privato. È innanzitutto la scoperta di un nuovo sé o di una parte di sé che per la prima volta si manifesta. La “prima volta” è la paura, è la vergogna, è il coraggio, è l’amore. Pensate alla prima volta dell’amore, spesso è brutta, deludente, forse fastidiosa, ma è un passo e chi lo compie sa che lo è, sa che si tratta di un inizio da cui non si torna indietro e sa che quell’inizio riguarda innanzitutto se stesso, la propria sfera intima e che nulla ha a che vedere con tutto il resto del mondo. E proprio per questo è una cosa da custodire, da tenere per sé, senza sfidare gaglioffamente alcunché. Nessuno osserva e l’unico giudizio a cui si è sottoposti è il proprio.

Ancora, Pica non parla di dimenticati o di vecchi, ma di memoria. Oggettivizza: non persone, ma una dimensione, privata e pubblica. La memoria è allo stesso tempo personale e collettiva e in entrambi i casi è oggettiva, è un insieme di ricordi personali e di fatti da tutti accettati che genera un impasto strano dove si ha contemporaneamente la certezza della verità e la nebulosità di come quella certezza la si sia acquisita. Il ricordo è relativo, perché è individuale e quindi parziale, mentre la memoria è assoluta, perché è l’insieme pubblico di tutti i ricordi individuali sommato a qualcosa d’altro, a qualcosa che tutti sanno, ma di cui nessuno ha ricordo.

Questa oggettivazione colloca in una dimensione nuova coloro che riemergono. Essi escono non dall’oblio in cui erano scivolati, ma dalle pieghe della memoria, diventando così un patrimonio collettivo, un qualcosa che appartiene a tutti. E se c’è qualcuno che non ricorda, beh è lui ad essere in difetto.

Se la PicaGallery ha un indirizzo, allora, è quello del pudore e una galleria pudica è quasi un controsenso. Ma tant’è: nessuno fra quelli che soggiorna nel posto dice: cosa ci faccio qui? Non c’è assenza di rispetto, non c’è aggressività, non c’esibizione. C’è geografia. Gli uni accanto agli altri, con continuità e con distinzione.

             Fra tutte mi piace ricordare tre mostre, che forse esulano (ed è probabile che per questo mi piace ricordarle) dalla logica delle poetiche pensate e dette da Pica, ma che per me descrivono perfettamente il posto, tracciando il segno delle geografie private che vi si determinano (una delle caratteristiche di PicaGallery è di essere regolata sul ritmo delle stagioni, per cui la programmazione pare seguire il corso della natura: assopita e lenta nei mesi invernali, con un calendario rado e letargico, non vuoto, ma sospeso; via via più vivace e serrata col procedere della primavera, fino ad esplodere in luglio con un susseguirsi fitto di eventi).

            Il Santuario della Memoria di Franco Biagioni era semplice e complesso al contempo: uno spazio duttile e itinerante che custodiva dipinti a olio raffiguranti eventi e persone della cronaca e dell’immaginario degli ultimi decenni: da Chernobyl a Ustica, dal Vajont all’alpino che catturò la balena, dall’omicidio Pasolini all’eremita di Pocapaglia, da Maria Callas a Jimy Hendrix, George Perec e James Bond.

            Biagioni raccontava questi eventi compiendo una scelta stilistica precisa e attivando di conseguenza un codice comunicativo che dalla sua apparente semplicità traeva la propria ricchezza espressiva. Utilizzava, infatti, la tecnica degli ex voto, pitture ad olio su tavolette di legno grandi quanto un foglio A4 in cui i fatti e gli eventi erano rappresentati in maniera schematica e forte. Ma il Santurio di Biagioni non si esauriva in una galleria itinerante dei fatti notevoli dell’ultimo secolo. Era qualcosa di più, un luogo di sospensioni e di pause, un luogo per imparare a ricordare, che offriva stimoli e generava piccoli corti circuiti, in cui i dipinti più che spiegare offrivano soluzioni, prospettavano a chi guardava “possibilità”, mettondolo di fronte alla gioia e alla responsabilità di costruirsi una propria idea, una propria opinione, un proprio percorso interpretativo.

            Nessun luogo dove vivere era il titolo del racconto fotografico di Ettore Malanca e Massimo Marson. Quaranta fotografie che dicevano di volti, di corpi, di sguardi, di luoghi, di terre, di radici. Quaranta immagini in bianco e nero che offrivano lo spaccato, struggente e meraviglioso al contempo, del popolo rom, che, come tutti i popoli, ha una sola anima, ma mille modi per esprimerla e per rappresentarla. I due reporter, con una cifra stilistica forte, raccontavano, infatti, diverse comunità, molto differenti fra loro, con destini anche molto diversi. Ma nonostante ciò emergeva un senso di evidente familiarità, la condivisione di un modo particolare di stare insieme, di perpetuare le convivenze, impossessandosi del tempo, padroni del proprio destino. E la cosa che colpiva, guardando quelle quaranta fotografie tutte assieme, era la totale estraneità di quelle persone a noi: non erano mai soli, sempre in gruppi più o meno folti, con i corpi vicini, con uno stare insieme che era fisico e non solamente sociale, che era solidale: tutti sostenevano tutti. Senza differenze apparenti fra giovani e meno giovani, fra adulti e bambini. Ognuno con un proprio prestigio, perché ciascuno è ciò che fa e ciò che fa lo rende utile agli altri. Uno e molti.

            Le case di Virginia Wolf è stata una piccola grande idea di Giuseppe Bilotta, realizzata poi con l’aiuto di Giuseppe Manigrasso, autore di un bel busto della scrittrice, e di Checco Moroso, realizzatore delle miniature della case. L’esperimento di raccontare la vita di qualcuno attraverso i luoghi e di condensare in essi, in quei posti, il significato stesso di quella vita, con le sue tragedie e le due gioie e forse le sue abiezioni, era già di per sè intrigante, oltre che originale nel fondere forme espressive diverse.  Ma la forza che derivava da quell’esperimento e che mi colpì per la sue radicale efficacia, consisteva nel sottrarre informazioni, nell’eludere qualunque spiegazione lasciando solo ai posti (i cui modelli erano, fra l’altro, un interessante mix di accuratezza di particolari e di estrema semplificazione) la responsabilità di “parlare”, nella consapevolezza che i luoghi non sono mai anonimi, ma sono invece la proiezione esterna di uno stato interiore, la concretizzazione nello spazio delle dinamiche intime.

            La PicaGallery è un posto dove andare. Accadono fatti come questi che si consumano essendo, ossia comprendendo nel posto un insieme di individualità che in qualche modo collaborano e danno origine a qualcosa che non è mai uguale. Fatti che si consumano, ma che non deperiscono, restano semmai sospesi, come carte geografiche che semplicemente e staticamente illustrano, riportano. Pensandoci, mi viene in mente una piccola frase di Guimarães Rosa: “gli uomini non muoiono, restano incantati”.

Daniele Pitteri

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