SPECIALE COLLOQUIO A TRE VOCI

 

ANTONIETTA ASTORI

CLAUDIA DONÀ

SALVATORE PICA

 

"...era la primavera del 1983..."

 

Salvatore Pica e Antonietta Astori

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Non ero mai stata, prima di quella mattina con Salvatore PICA, nello studio di Antonietta ASTORI, in quella «stanza tutta per sé» nella quale, pur rappresentando il luogo del suo lavoro e in qualche modo della sua libertà, ha voluto, con una strana lucida consapevolezza, materializzare al suo sguardo (e a quello di chi entra) l’immagine di una gabbia, di una voliera. Mi colpi, comunque, l’atmosfera di serenità di quel posto, una sorta di serenità quasi immobilizzata, cristallizzata. Ma senza turbamen­to. Anzi, con un senso di calma che riusciva a non tradire la possibile ansia che accompagna il desiderio di quiete. Avevo con me il registra­tore e un quaderno per gli appunti ma non sapevo ancora bene l’uso che ne avrei fatto. Conoscevo i lavori di Antonietta ma conoscevo poco lei. L’avevo vista alcune volte, ricordavo un viso molto bello, una persona che lasciava trasparire agli altri, di se stessa, qualcosa che a me piace molto, un lieve imbaraz­zo, un certo disagio nello stare al mondo. Salvatore Pica mi aveva chiesto di scrivere un ritratto in occasione di questa mostra al Centroellisse di Napoli, ma soprat­tutto mi aveva espresso il desiderio che lei ed io ci conoscessimo e per questo, dubitando forse che noi avremmo mai trovato il coraggio di vincere una reciproca timidezza, mi aveva voluto accompagnare ed essere presente. Voleva anche, credo, che io capissi che cosa lui amava di Antonietta, che cos’era il rapporto di amicizia e conoscenza che l’aveva mosso a realizzare una mostra sul suo lavoro. E’ nato così un discorso a tre voci, abbastanza anomalo e in taluni momenti surreale, nel quale le voci di una conoscenza che si instaura e scopre, quella tra lei e me, si mescolano e alla fine si sovrappongono a quelle di una conoscenza, tra Antonietta e Salvatore, già iscritta nel passato. Nel gioco affascinante di un incontro, e di un ‘intervista quando non sia già prefigurata, c’è sempre il rischio della scoperta. E nella sorpresa dell’altro c' è sempre la possibilità dello specchio, l’incanto del riconoscimento forse narcisistico, da percorrere talvolta semplicemente come conferma, talaltra come improvvisa scossa per ulteriore ricerca e disvelamento. Quando a metà di quella strana giornata, durante una pausa di colazione, scoprimmo di essere nati nello stesso giorno, non fu in fondo niente di inaspettato. Ecco perché il colloquio segue ambigui sentieri molto poco controllati, con voci fuori campo, deviazioni inattese, percorsi dell’io, strane autocoscienze e inversioni di rotta. Si parla si di chi è Antonietta Astori, delle cose che ha fatto e fa, di design e di architettura, ma forse in maniera tutta tangente al dire «di Antonietta» E del fatto che, come sosteneva Salvatore, ci assomigliamo.

Claudia Donà

 

CLAUDIA DONÀ: Salvatore, perché una mostra su Antonietta ASTORI?

 

SALVATORE PICA: Non è che un pretesto per rendere pubbli­co uno dei miei innamoramenti immaginari. La mostra è un gioco, come sempre, che rispet­ta il metodo di lavoro di Antonietta a metà tra il gioco e la serietà, tra un suo bisogno e la creatività. Poi è la conseguen­za di quindici anni di conoscen­za: durante i primi cinque Antonietta l’ho conosciuta solo attraverso i suoi oggetti.

 

ANTONIETTA ASTORI: Ci siamo conosciuti a Piacenza nel ‘73.

PICA:    Si, è vero, la conosco di persona da dieci anni ma è come se la conoscessi da quindici. Antonietta ha quest’aspetto poetico che mi ha permesso di iniziare a parlare con lei nel ‘68 attraverso i suoi mobili.

DONÀ: Era però un monologo. Fino al ’73 a Piacenza.

PICA:    No, un momento! Non possiamo saltare cinque anni così altrimenti non si capisce nemmeno il senso della mostra. L’immagine Driade nel ‘68 non era certamente quella di oggi, per cui bisogna riconoscere a Antonietta che la facile penetrazione sul mercato a quell’epoca fu solo grazie al suo prodotto e alla sua ricerca.

DONÀ: Come sei arrivata al design, hai fatto architettura?

ASTORI: Ho fatto architettura d’interni e design a Losanna, ma la mia vocazione è più per l’architettura, al design sono arrivata casualmente, come a me piace succedano le cose, non amo prevenirle. Se non fosse nata la Driade avrei fatto certamente l’architetto, non ho interesse per l’oggetto singolo e credo si veda, il mio punto di partenza è sempre l’insieme.

DONÀ:     Hai fatto dell’architet­tura?

ASTORI: Pochissima, Driade è nata quasi subito, nel ‘68, e mi sono trovata nella situzione nella quale la mia possibilità reale di lavoro era quella di disegnare dei mobili.

PICA: Una tua caratteristica è partire dalla macchina, dalla possibilità di realizzazione industriale dell’oggetto. Questa tua capacità è riuscita a tradursi in soluzioni formali che allora, negli anni ‘70, corrispondevano a certe trasformazioni sociali, a un mobile più «libero».

ASTORI: Mi piaceva molto come li aveva definiti Isa Vercelloni, «mobili non autori­tari», nel senso di strutture con le quali si possono comporre altre cose.

PICA:    Il rapporto ricerca e trasformazione sociale lo tro­viamo quasi sempre, dal Modu­lo 1 nel ‘68 all’Oikos nel ‘73-‘74, poi ridefinito nel ‘76-‘77.

ASTORI: Non si è trattato di un rapporto ragionato a tavoli­no, ho semplicemente vissuto un certo periodo storico, quello che facevo era una cosa ovvia per me. Con Pica c’è sempre stato un filo e da parte sua sempre un richiamo. Quando ci siamo incontrati la prima volta, nel ‘73-74, in un momento forse per tutti e due di svolta, io stavo per progettare l’Oikos e il suo richiamo mi ha aiutato e stimo­lato. Diciamo che Pica mi ha incontrato in momenti di passaggio e mi ha dato degli inco­raggiamenti a proseguire su una strada che già era mia.

DONÀ: Come è nato il sistema Oikos?

ASTORI: Cominciavo a consi­derare il sistema Driade 1, del ‘68, un po’ scolastico e utopisti­co; l’avevo progettato immagi­nando una casa a spazio libero, pensando a un sistema come a un mattone per interni nel quale gli elementi potessero essere schermi e contenitori allo stesso tempo. Poi quest’uto­pia dello spazio libero non si è realizzata e forse, dico oggi, fortunatamente perché i muri ora mi piacciono. Comunque avevo cominciato a pensare a un altro sistema a pannelli da assemblare; questo voleva dire problemi di profondità, di altez­za, di attenzione al modulo, di introduzione del colore per avere una griglia sia neutra sia caratterizzata. Ho scelto il bianco come base perché entrando cosi massicciamente negli ambienti il bianco è il solo colore soppor­tabile.

PICA: tu parti da considerazio­ni generali ma nello stesso tempo consideri fattori molto precisi. Appartieni alla «catego­ria internazionale dei discreti», stai nei luoghi chiusi, occulti.

 

DONÀ: L’aspetto di non ag­gressività, di discrezione dei tuoi sistemi non mi sembra, infatti, casuale. « Vogliono» essere discreti.

 

ASTORI: Un sistema deve contenere la possibilità di essere neutralizzato o comunque reso discreto. Poi dipende da chi lo usa, può anche essere molto forte.

 

DONÀ: Nella persona consideri la discrezione un valore?

ASTORI: La considero un mio abito, però ci sono persone all’opposto di me che mi affasci­nano molto.

DONÀ: Qual’è l’aspetto che ti dà invece più fastidio?

ASTORI: L’arroganza e l’indos­sare una maschera. Si può essere molto semplici o molto costruiti ma non mi piace chi indossa qualcosa che non gli corrisponde.

DONÀ: Hai detto che l’incon­tro con il design è avvenuto con la nascita della Driade. E’ stata una rinuncia all’architettura?

ASTORI: No, non la vivo come una rinuncia, il riferimento dei miei oggetti è all’architettura. Nel mio modo di intender spazi e volumi non esiste differenza fra esterno e interno, è sempre una maniera di organizzare lo spazio. Io leggo sempre un rapporto molto stretto fra un mobile e l’architettura di quel periodo: per esempio se guardo una credenza del Rinascimento ritrovo la scansione a ordine sovrapposti o se guardo i Casiers Standard di Le Corbusier non posso non pen­sare alla sua architettura.

 

DONÀ: In architettura quali sono le tendenze o i movimenti che ti hanno affascinato di più?

 

ASTORI: E’ molto difficile risponderti perché prima dei movimenti ci sono le persone. Le persone o sanno fare un mestiere o non lo sanno fare, o sanno progettare o non sanno progettare. Credo che nel ba­rocco, come nel razionalismo o nel postmodern, ci siano state cose bellissime e cose orribili e allora non so dire quale periodo storico preferisco o quale perso­naggio. Fatta questa premessa, mi ritrovo in De stijl e nel razionalismo; fra le esperienze più recenti mi interessano molto i Five.

 

DONÀ: Qualcun altro nel passato recente?

ASTORI: Mi ha emozionato il Gallaratese di Aldo Rossi. Penso che ci siano molti bravi architet­ti ma poi è un po’ come nella poesia, pochissimi poeti riesco­no a trascendere, a dare un senso della metafora. A me succede la stessa cosa quando guardo l’architettura.

PICA: Il problema sui nomi nasce dalla tua discrezione.

ASTORI: A PICA va benissino fare una conversazione come questa, per me invece è molto difficile. Mi è facile fare un discorso a ruota libera, nel corso del tempo, come abbia­mo fatto in tutti questi anni; così invece avrei bisogno di domande e risposte concrete e di tempo per pensarci. Mi trovo spaesata.

PICA: Antonietta stai tranquil­la, noi andiamo a flash, proba­bilmente il colloquio sta avendo una linea molto napoletana. Parliamo un po’ della famiglia e della femminilità. Io ho sempre ritenuto la donna portatrice di processi di libertà entro il siste­ma del potere, anche per questo mi affascina Antonietta. Forse però il problema è che la donna abbandona spesso il concetto di lotta.

DONÀ: Sei d’accordo Antonietta?

ASTORI: Mi è capitato talvolta di rinunciare a delle proposte perché non so fare tante cose in una volta. A me va bene così, solo capisco che la famiglia, pur essendo una cosa splendida, è un elemento frenante. E facile accettare che una donna lavori per necessità ma è molto più difficile per tutti quelli che ha intorno accettare che lo faccia perché le piace.

DONÀ: Mi chiedo se sia stato casuale o no che il primo mobi­le Driade lo abbia disegnato una donna.

ASTORI: E casuale il fatto che sono una donna, non lo è il mio interesse per il mobile conteni­tore. In quegli anni mi sembra­va ci fosse una scarsa attenzione verso questo tipo di oggetto da parte dei grandi designer: c’era qualcosa di interessante di Mangiarotti, di Sottsass, poi le pareti attrezzate tedesche molto curate nei particolari ma senza rigore formale. Per questo io, figlia di un ingegnere che faceva prefabbricati, ho cominciato a pensare a sistemi molto sempli­ci, attenti alla proporzione, che si potessero trasformare senza togliere nulla alla forma e alla funzione.

 

DONÀ: Secondo te perché c’era così poca attenzione verso questa tipologia d’arredo da parte del mondo del design?

 

ASTORI: Forse perché non era gratificante per un designer pensare a un mobile componibile?

 

DONÀ: E per te perché invece lo era?

ASTORI: Per fare un oggetto fatto e finito occorre forse una presunzione che io non ho mai avuto, dietro a dei componibii ci si può invece nascondere.

PICA: Tu hai una visione ideali­stica della vita e questo forse ti impedisce di pensare a un oggetto. Tu disegni partendo dalla macchina e vedi gli altri come entità.

 

ASTORI: Più che partire dalla macchina io so che la macchina è li, che esiste e può fare deter­minati oggetti.

 

PICA: Volevo dire partire dalla macchina come metafora, proprio perché può sembrare strano che una donna come te, che è l’opposto perché parte dall’idea, abbia sempre realizzato sistemi industriali. Paradossalmente da una «liberalmitteleuropea» è nato l’unico mobile « socialista» degli ultimi anni.

 

DONÀ: Ti senti una liberalmitteleuropea?

 

ASTORI: Non lo so, non ci penso mai, tutto cambia così in fretta che magari, proprio nel momento in cui hai accettato una definizione di te, sei già un’altra cosa. Direi che si tratta soprattutto di un tipo di educazione, la mia era una famiglia medio-borghese, mia madre insegnava; si, avevo una bisnonna ungherese da parte di padre ma non credo basti per sentirsi «mitteleuropea ».

 

DONÀ: Dove sei nata?

 

ASTORI: In provincia di Milano ma dai sette ai quattordici anni ho vissuto in Argentina. Questo mi ha insegnato un certo ottimismo verso la vita. Ho avuto un’educazione molto austera, legata al senso del dovere e al bisogno di avere dei modelli; tutto ciò è piuttosto faticoso, l’esperienza in Sudamerica mi ha aiutato a vivere meglio e a capire che insieme al dovere può esserci del piacere. Ho ritrovato questa dimensione di gioia e allegria le prime volte che ho visto certi mobili di Sottsass per Poltronova e le sue ceramiche: mi è sembrata una cosa molto bella, liberatoria, mi ha aperto delle possibilità. Anche nel mio lavoro c’è questo aspetto: da un lato il rigore, dall’altro l’amore per il gioco, per la possibilità di intervenire, per il fantastico. Parlando di personaggi, amo allo stesso modo Sottsass e Mari; ciascuno, partendo da un’idea completamente diversa, arriva a degli oggetti di una bellezza straordinaria.

DONÀ: Sono un po’ le tue due anime.

ASTORI: Si, forse.

DONA: Ami la provincia?

ASTORI: No, provo della com­mozione se torno a rivedere i luoghi della mia infanzia ma la provincia non mi piace. Mi affascina la città o, all’estremo, l’isolamento completo, non il paese che tende a dividere le persone in piccole caste molto rigide dove tutto è già prestabilito.

DONÀ: Nella città preferisci il centro storico o la periferia?

ASTORI: Tutte e due le cose, mi piace una certa periferia con una desolazione un po’ metaforica, per questo affasci­nante.

DONÀ: C’è una casa dell’infan­zia, una « casa del padre », cui ti senti legata?

ASTORI: Non mi piaceva, aveva un lungo corridoio un po’ triste. In Argentina ne abbiamo cambiate molte, mi piaceva la prima, l’avevamo affittata per tre anni, era grande, con la piscina.

DONÀ: Dov’era?

ASTORI: A Buenos Aires che è una città bellissima, molto viva. Ci sono tornata un anno fa ed era ancora come la ricordavo, ho ritrovato la stessa vitalità anche se ci sono stata solo quindici giorni.

DONÀ: Ti senti in qualche modo legata alla cultura mitteleuropea, alla cultura della «crisi»? Per esempio ne ami la letteratura?

ASTORI: Ah sì, molto, la mia formazione viene da qui, è un po’ il mio «albero degli zoccoli». In particolare mi piacciono Trakl, Rilke, Kraus e poi Wittgenstein moltissimo; naturalmente i pensieri, l’uomo, non i trattati filosofici.

DONÀ: E Musil?

ASTORI: Mi ha angosciato troppo, l’ho letto in un momen­to molto particolare della mia vita. Porse dovrei rileggerlo adesso. Devo dire però che insieme a questa letteratura amo altrettanto quella latinoamericana, Borges soprat­tutto.

DONÀ: Sei contenta della mostra?

ASTORI: A dire la verità non lo so più. Forse no, ma quando comincio una cosa la finisco. Ti facciò un esempio: io fotografo, ho un cassetto pieno di fotogra­fie alla rinfusa ma non ho mai fatto un album, non mi piace catalogare il passato. Ecco, in un certo senso una mostra costringe a catalogare, lo puoi fare più o meno disinvoltamen­te ma alla fine sei costretto a fare un bilancio. In questo senso mi angoscia un po’, forse per­ché a me piace nascondermi...

PICA:In fondo la mostra fra te e me è iniziata come gioco.

ASTORI: Esatto, come gioco andava bene ma a un certo punto deve diventare una cosa seria, il gioco diventa relativo.

DONÀ: Un po’ come tutti i giochi. Fotografi da molto tempo?

ASTORI: Ah, no, fotografo malissimo e da poco tempo. Sono abbastanza bloccata per­ché penso che fotografare sia una cosa seria e mi piacerebbe farlo bene. Poi c’è un altro problema: fotografare costringe a fissare qualcosa, a mettere a fuoco, a scegliere, a perdere talmente tanto tempo che alla fine si perde anche la possibilità di fotografare il resto con la testa. Mi piacciono molto le finestre.

 

DONÀ: Hai detto che ti piace nasconderti, perché?

 

ASTORI: Perché cosi mi vengo­no a cercare. Forse è paura? Se poi non viene nessuno ci riman­go male. A te non piace?

 

DONÀ: Sì, o almeno non mi piace andare avanti, mostrarmi. Perché ti piace fotografare le finestre, cosa ci vedi?

ASTORI: Tante cose, ogni finestra è una piccola architet­tura, un mobile, ogni finestra è un oggetto finito. Poi si intravvedono le persone, la vita.

DONÀ: E anche un modo per guardare senza farsi vedere?

ASTORI: No, a me interessa stare fuori dalla casa, guardare le finestre dall’esterno, mai dall’interno. Ma perché mi fai queste domande?

DONÀ: Mi incuriosisce, è un gioco di sguardi. E’ bello anche che tu veda la finestra come un oggetto.

ASTORI: A me piacciono le prigioni immaginarie, nello studio mi sono costruita una voliera.

DONÀ: Ti senti un uccello in gabbia?

ASTORI: Sì, e se non mi ingab­biano gli altri mi ingabbio io.

DONÀ: Questo aspetto non si ritrova nei tuoi oggetti, sono mobili per contenere ma non hanno niente della prigione.

ASTORI: , c’è la griglia ricor­rente.

DONÀ: Si, ma è qualcosa di sereno.

ASTORI: Non sono cosi dram­matica...

DONÀ: No, non drammatica, però è come se questa tua com­plessità nell’oggetto si rasserenasse. E vero che ci sono le griglie ma non darmo un’idea di prigione.

ASTORI: Ma io faccio oggetti per la casa, mobili di serie. Altre cose le ho fatte per me ma non per altri.

DONÀ: A che cosa ti riferisci?

ASTORI: A dei mobili che sto studiando, forse si chiameranno «Aforismi».

DONÀ: Li metterai nella mo­stra?

ASTORI: Non lo so proprio, ci devo pensare; preferisco non parlarne ancora.

PICA: Il tuo problema e scoprirti o meno.

ASTORI: No, credo però che per molti aspetti la mia ricerca sui sistemi sia finita, potrò ancora lavorarci ma ho acquisito un altro tipo di maturità. Forse in questo momento po­trei fare degli oggetti anche se propabilmente sarebbero anco­ra dei contenitori perché il richiamo all’architettura è molto forte.

PICA: Rispetto all’Oikos questi ultimi mobili, che io chiamo «della catastrofe», sono più intimi, sono un po’ i mobili della trasgressione.

 

DONÀ: Cosa ci leggi di trasgressivo?

 

PICA: Sono trasgressivi perché hai sempre pensato in termini di realizzazione industriale, di fabbrica. Questi mobili invece sono te, fuori dalla Driade, dal mondo, da tutto. Un fatto tuo che hai quasi paura di mostrare.

 

ASTORI: Ho sempre fatto cose semplicissime e tutte realizzabili con la macchina, questi mobili invece non lo sono, c’è dentro l‘800, mio padre. Oggi, dopo gli anni ‘70, è difficilissimo fare dei mobili-oggetto.

 

PICA: Ma non è vero, è la tua paura del confronto con altre culture, il voler persistere a non uscire da te. Non vuoi ammettere d’avere una tensione che ti rimanda all’origine.

 

DONÀ: Se il suo punto di par­tenza sul design è sempre quel­lo di un processo rigorosamente industriale certo non è facile.

 

PICA: Va bene, però c’è anche una concezione poetica del design, un percorso di luoghi di memoria, dove si è cresciuti.

 

ASTORI: Sicuramente queste cose riguardano più te che me...

 

PICA: Il grosso rischio tuo credo sia quello di continuare in un filone di ricerca entro il quale hai espresso il massimo con l’Oikos, reprimendoti inutil­mente se vuoi fare cose diverse. In questo sono polemico con te, hai paura di scoprirti.

ASTORI: No, non è vero.

DONÀ: Cos’ha rappresentato per te l’incontro con Salvatore Pica?

ASTORI: Una conoscenza importante che mi ha dato il coraggio di fare cose nuove, anche se lui tenderebbe a proteggermi un po’ troppo.

DONA: Perché ti occupi di arredo, di oggetti, anziché di architettura?

ASTORI: L’oggetto è qualche cosa che prima o poi finisce o almeno cambia; un’architettura invece dovrebbe durare, entrare nella storia.

DONÀ: Ma anche un oggetto potrebbe farlo, no?

ASTORI: Si, può diventare storia, ma i miei sistemi sono pensati per la casa d’oggi, con poco spazio, dove il valore del mobile non è quello dell’800. Ecco perché penso che queste cose non dureranno, non ho mai pensato al mobile come mobile della memoria, da tramandare; I miei componibili si smontano e rimontano, si usano in un modo o in un altro, non sono fatti per durare. Forse però oggi sono in una fase, può darsi che poi ne esca qualcosa che ha a che fare con il passato e con il futuro, vedremo.

DONÀ: Cosa pensi quando disegni un mobile?

 

ASTORI: Non lo so dire, è un processo molto lungo con una fase di concretizzazione molto rapida. Parto comunque sempre da una necessità concreta.

DONÀ: Disegni molte possibili­tà o ciò che disegni subito è quasi già definitivo?

 

ASTORI: Come sistema è già quasi chiuso e prefigurato all’inizio, quando lo progetto, però poi disegno infinite possibilità di metamorfosi perché la mia tendenza è quella di non chiudere mai un po’ come con i figli.

 

DONÀ: Nel senso che è un rapporto che non ha mai fine, che è per sempre?

ASTORI: Sì, e mai uguale a se conflittuale.stesso. Quello con i figli è fondamentalmente un rapporto di conoscenza, loro fanno continuamente domande e mettono in crisi le risposte che magari si avevano.

DONÀ: Ti capita di realizzare dei progetti che non usi?

 

ASTORI: No, perché lavorare per la Driade è un vincolo ma èanche una via da percorrere.

 

DONÀ: Quindi non ti succede di pensare ad altri tipi di produzione?

 

ASTORI: No, il mio tempo libero preferisco passarlo viag­giando, leggendo, con i miei figli. Il lavoro, anche se bello, è quasi uno scotto che si deve pagare per essere liberi, ma non ne faccio un mito, non è una dimensione totalizzante. Penso che pochissime donne potrebbero dire che lo è. E per te?

 

DONÀ: Vorrei che non fosse totalizzante ma spesso lo è, è qualcosa di cui non posso fare a meno anche se è un rapporto conflittuale.

 

ASTORI: Se intendi dire che poi esiste il senso del dovere per cui una cosa non si lascia finché non la si è portata a termine, allora è totalizzante. Ma nella mia mente non lo è.

 

DONÀ: Dove ti piace viaggiare ?

 

ASTORI: Dappertutto, dipendi dallo stato d’animo. A volte mi trovo bene, a volte male, ma non ho preferenze.

DONÀ: Quale città italiana ami di più?

 

ASTORI: Sicuramente Napoli, ci ritrovo la gioia che mi dà il Sudamerica, il senso che si può vivere di improvvisazione. Ma perché si chiedono queste cose alle persone? Proviamo a rovesciare l’intervista: allora, qual è la città d’Italia che preferisci?

DONÀ: In questo momento mi è difficile rispondere, ho sempre pensato che fosse Milano. L’an­no scorso ho avuto un lungo innamoramento per Napoli e per il Sud, ma temo che mi manchi questa tua esperienza con il Sudamerica, non ho ancora imparato che si può vivere anche con piacere e quindi ho bisogno del mio senso di dovere.

 

ASTORI: Ah sì, io ho avuto quest’esperienza da piccola ed è stata molto forte, ma non so se potrei vivere a Napoli.

 

DONÀ: Ti piace rivedere i luoghi che hai amato?

 

ASTORI: No, non molto, a meno di non avere degli amici. E a te?

 

DONÀ: Dipende, a volte mi piace molto ripercorrere situa­zioni che sono state di gioia e trasformarle in esperienze di tristezza.

 

ASTORI:Ah, un gioco di memoria.

DONÀ: Sì, l’ho in forma perver­sa con Venezia. Talvolta ci vado appositamente per essere triste.

ASTORI: Se ci sente Antonioni ci scrittura.

 

DONÀ: Ti piace Antonioni?

 

ASTORI: È il regista italiano che amo di più, il solo che vorrei conoscere.

 

DONÀ: E’ affascinante questa tua polarità di dovere e piacere: riesci a conciliarli?

 

ASTORI: Quasi mai, l’esperienza del dovere è molto più forte; sono due culture opposte, due poli lontanissimi. Ti faccio un esempio, ricordo, da bambina, i pranzi in famiglia in Italia, dove tutto era prestabilito e si sapeva esattamente chi doveva arriva­re, e poi quelli in Argentina nei quali non si capiva mai quante persone arrivassero durante tutta la giornata. In Sudamerica c'è un gran senso della sorpresa.

 

DONÀ: C’è forse un altro senso della dimensione, del rapporto con lo spazio.

 

ASTORI:Ma da piccola non lo avverti secondo me. La questione dello spazio l’ho capita più tardi, andando in Nordamerica; da piccola sono più forti le sensazioni legate alle persone, ai costumi.

 

DONÀ: Pensavo alle foreste sterminate, agli spazi infiniti. Hai visto « Fìtzcarraldo »?

ASTORI: Si, ma non mi è pia­ciuto molto.

DONÀ: Il cinema, comunque, ti piace?

ASTORI: Si, si, moltissimo.

DONÀ: E il teatro?

ASTORI: Mi lascia completamente estranea. Ma coinvolgiamo di nuovo Pica (che si è distratto ordinan­do un caffé;) a che cosa pensi?

PICA: Che vi debbo dire, tu Antonietta disegni anche per me, sarebbe inutile che io faces­si il designer, è per questo che mi hai sempre affascinato molto.

DONÀ: Spiegati meglio.

PICA: E’ semplice, quando t’ho incontrata ho pensato: ecco una persona che esprime negli oggetti quello che io vorrei esprimere. E lo continui a fare attraverso una concezione non elitaria del design che corri­sponde a quelle che io ritengo le esigenze della distribuzione. Uno dei punti chiave del nostro settore, soprattutto oggi, è proprio quello di riuscire a rompere la schizofrenia che spesso esiste tra produzione e mercato. Scusatemi la scorrettezza di una finta intervista a tre ma mi sembrava l’unico modo di farvi incontrare; ora posso andarmene. Mi sembra, e questo mi piace molto perché è nella logica del gioco, che il colloquio si sta spostando da tre a due voci.

DONÀ: Ciao Salvatore. Senti Antonietta, le parole di PICA hanno ricondotto il discorso al design. Tu che idea hai del design e in particolare di quello italiano?

ASTORI: Confusa, riconosco che da noi c’è maggiore inven­zione, che il design italiano è l’unico che si muove su linee interessanti, ma ho anche la sensazione che ci stiamo occupando di cose marginali con un grosso dispendio di energie.

 

DONÀ: Alludi alla produzione di una grande quantità di cose inutili?

 

ASTORI: Sì, e poi al fatto che mentre noi siamo qui a disegna­re o a parlare di mobili, altri, in altri campi, hanno fatto passi da gigante. Però non ci penso mai altrimenti non farei più nulla. Per me la luna è una cosa ro­mantica, ho sempre cercato di non guardare quelli che vanno nello spazio; ma loro ci vanno.

 

DONÀ: Come immagini il futuro?

 

ASTORI: Non lo immagino, mi piace molto di più il passato. Non mi piace, per esempio, leggere di fantascienza; penso che il futuro mi capiterà addos­so, un po’ come tutte le cose.

 

DONA: Perché pensi che le cose ti capitino addosso?

 

ASTORI: Mah, perché nella vita o tu fai dei programmi o gli altri li fanno per te. Certo poi succede che ti capita quello che in qualche modo vuoi che ti capiti.

 

DONÀ: Hai mai fatto dei grandi rifiuti? Sull’educazione, la famiglia ... il cattolicesimo?

 

ASTORI: No, mai, non ho mai avuto il coraggio di farli fino in fondo. Diciamo che nell’incer­tezza di una cosa io non l’ab­bandono. Avrei potuto lasciare il cattolicesimo per un’altra idea, religiosa o politica, ma di fondo sono ancora oggi cattoli­ca.

DONÀ: Sei anche un po’ idealista?

ASTORI: Molto, ma poi mi adeguo alla realtà abbastanza facilmente e mi lascio assopire a poco a poco. È questo il mio senso della prigione.

DONÀ: Che rapporto hai con gli oggetti?

ASTORI: Non ho un grande amore né per la casa né per gli oggetti, non ho attaccamenti per le cose, molto di più per le persone. Ogni tanto però ci sono degli oggetti di cui mi innamoro.

DONÀ: Nella tua casa ci sono oggetti disegnati da te?

ASTORI: Pochi e soprattutto prototipi, non è una casa molto progettata. Credo sia molto difficile progettare la casa in cui si abita, soprattutto quando c’è una famiglia, cioè un insieme di persone molto diverse fra loro.

 

DONÀ: Per qualcun altro po­tresti realizzare un interno?

 

ASTORI: Si, l’ho fatto, è sicura­mente più facile che per se stessi. Realizzare un interno è un po’ come guardarsi allo spec­chio: può succedere che tu non voglia guardarti o che le altre persone abbiano esigenze diver­se dalle tue e che tu non sappia tradurle. Generalmente, a parte certi interventi di ristrutturazione per i quali necessitano delle conoscenze tecniche, entrando in una casa preferisco sentire che l’ha realizzata chi la abita, anche se ci sono oggetti sbagliati, stonatu­re.

 

DONÀ: Si, credo che arredare una casa possa essere un fatto di grande violenza. Tu infatti preferisci gli allestimenti?

 

ASTORI: Ah, sì, non hai l’impegno di progettare per la serie e nemmeno la preoccupazione di pensare che qualcuno ci debba abitare per venti, trent’anni. E una cosa effimera, che lascia molto più liberi.

 

DONÀ: Certi oggetti metafora, come le cose di Sottsass e Mendini, ti affascinano?

 

ASTORI: Trovo i « totem » di Sottsass molto gioiosi, gli oggetti di Mendini sono spesso sconcertanti, mi fanno un po’ paura.

 

DONÀ: Che rapporto hai con la paura?

 

ASTORI: Non sono coraggiosa ma non mi interessa il meccani­smo della paura. Sono piuttosto un’insicura, ho molto dubbi prima di fare una cosa ma dopo non recrimino mai sul passato.

 

DONÀ: Che cosa rappresenta­no per te gli incontri?

 

ASTORI: Sono la vita, la possi­bilità di aprire una porta per vedere cose che non avevi visto. Quando non pensi più questo vuol dire che sei morta.

 

DONÀ: Ma poi tu apri le porte?

 

ASTORI: Non sempre, qualche volta ho paura.

 

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