Caro
Pica,
Rieccomi!
Mi
piace rincontrarti ed avere l’occasione di riscoprire insieme consuetudini
antiche, di raccontarti come dopo tanti anni, sono ritornato alla pittura, di
raccontarti i miei pensieri fra privato e non che accompagnano questo ritorno.
Mi piace descriverti una sorte di biografia tra la realtà di una vita
concretamente vissuta e i momenti di riflessione che l’hanno accompagnata,
amichevolmente e discretamente, come compagna silenziosa, ma mai muta,
nell’intimità di un rapporto privato.
Ed
allora, caro Pica, armati di pazienza e seguimi. Al netto della nostalgia, sono
passati quasi 33 anni dalla mia ultima “apparizione” proprio da te, al
vecchio Ellisse in Via Carducci con la mostra “dieci
poeti poi Karl Marx”. Era, infatti, se non ricordo male, il 1973, anni
di grandi “sospiri” e furori ideologici, approssimazioni teoriche e attese
palingenetiche. In realtà un traumatico processo di adeguamento
neocapitalistico mal governato o forse non governato.
Per
quel che mi riguarda negli anni ’60 avevo frequentato, ti ricorderai, la
pittura di avanguardia. Era stato semplice allora, ed aveva senso, fare
dell’”avanguardia” in un’Italia anchilosata, antica, irrigidita in
regole arcaiche da civiltà contadina, cattolica, bigotta.
Le
due grandi avanguardie, quella storica, degli inizi del secolo (quella del
futurismo, del cubismo, del dadaismo, del surrealismo, dell’espressionismo) e
quella degli anni ’60, le neoavanguardie, nascevano sempre da una volontà di
modernizzazione, di azzeramento, per andare avanti nella illusione della storia,
come di una freccia che si muove
sempre verso il meglio.
Caro
Pica, secondo la metafora avanguardista, “la
storia diventava un esercito e gli artisti un drappello che precede in
ricognizione”.
Ma
l’avanguardia significava anche essere avanti non solo nel tempo, ma anche
nello “spazio sociale”, cioè essere avanti, contrapposti, eterodossi e
contro. Rivoluzionari nei confronti della “cultura tradizionale” e infine
scandalosi. E così in questa vocazione di trasformare il mondo rendendolo
estetico, progettandolo a monte del sistema industriale o recuperandolo a valle
attraverso lo scarto e/o i rifiuti, in un doppio movimento dall’alto al basso
e dal basso all’alto, le avanguardie artistiche incontravano le avanguardie
politiche, stabilendo così una qualche alleanza ma anche una qualche
concorrenza tra le due utopie.
Il
’68 sembrò realizzare la
definitiva supremazia dell’utopia politica su quella artistica.
Ti
ricordi, Pica, nel ’68 tutto
precipitò. Parve allora, coscienza infelice, che bisognasse sospendere, fermare
il mondo, scendere o fare la
“rivoluzione” ed allora con la metafora dei dieci poeti più K. M., mi sembrò,
pur con molti “distinguo” e dubbi, che la storia fosse giunta ad una svolta,
che se pur non la rivoluzione violenta, ma un processo lungo di transizione
verso assetti politici, di potere economico, di ricomposizione delle classi
sotto la guida del P.C.I., dovesse allora iniziare in maniera evidente e senza
possibilità di ritorno indietro.
Santa ingenuità.
In questa illusione credo che il nostro paese abbia perso almeno una quindicina
di anni.
Caro
Pica, per inciso, se la trasformazione del P.C.I. fosse iniziata alla metà
degli anni ’70, quando era logico che iniziasse, e non alla fine degli anni
80, forse non avremmo avuto Berlusconi.
Invece
la seconda metà degli anni 70 fu funestata da un clima di disperata stupidità
ed allora alcuni capirono, anche per l’età che cominciava a “spostarsi in
avanti”, che occorreva guardarsi e fare i conti con se stessi.
Fu
quella una generazione che molto tardi (o almeno alcuni di quella generazione)
capì, che quanto meno, occorre trovare nella propria vita, un ragionevole
equilibrio tra il guardare ai problemi dell’”universo mondo” e i problemi
quotidiani della propria “biografia”.
Ed
allora, caro Pica, per quanto mi riguarda, poco dopo o poco prima (non mi
ricordo) mi laureai in architettura e in seguito anche ad episodi privati e
reduce dallo spensierato anticonformismo facile ma anche costoso degli anni
‘60, mi sembrò di dovere ancorare la mia vita a regole oggettive.
Follia
e normalità mi sembrarono cose non “radicalmente diverse” ma solo, la
prima, come dire, anarchica, la seconda gli stessi impulsi (non altro) in un
certo rapporto tra di loro governati, organizzati secondo regole equilibrate ed
equilibranti.
In
quel caso mi sembrò che queste regole potessero essere quelle dello scambio
oggettivo e chiaro del “dare qualcosa
per avere qualcosa”.
Allora,
Pica, scoprii, in maniera definitiva che fare il “pittore, l’artista”, insiste su uno spazio legato al “superfluo”
e il superfluo per diventare “indispensabile” richiede una
“personalità” con una grande carica di ambizioni, di narcisismo, di
determinazione di spregiudicatezza e forse di cinismo.
Non
puoi aspettarti che qualcuno abbia bisogno di te e ti chiami, perché la tua
professione o mestiere possa risultare utile per risolvere un problema, a
prescindere dalla tua capacità di promozionarti, di far compiere alla tua
presenza quel salto logico da superfluo a indispensabile!
Mi
dissi insomma: un idraulico troverà sempre qualcuno “con un cesso appilato”. E così decisi per una attività con
maggiori possibilità di insistere “sulla
necessità”.
Caro
Pica, l’architettura, o fare l’architetto, almeno come l’ho fatto io, era
una attività più vicina alle mie corde, alle mie possibilità e necessità. E
così, nei limiti che mi sono stati possibili, ho svolto questa attività.
In
questi quasi 30 anni ho disegnato piante, prospetti, sezioni, elementi di
arredo, mobili. Ho disegnato (e fatto posare in opera) pavimenti di parquet, in
marmo, in maiolica. Ho fatto alzare pareti, tramezzi, aprire vani, realizzare
piattabande, piedritti di mattoni pieni, solai in ferro, in calcestruzzo armato
in opera. Ho frequentato quotidianamente capomastri, “manipoli fravecatore”, “mezze
cucchiare”, piastrellisti, elettricisti, idraulici, falegnami, ebanisti,
pittori, carpentieri, marmisti, posatori, controsoffittatori, fabbri ecc. ecc..
Pasquale,
Mimì, Mastupeppe, Felice, Mimmo,
Enrico, Enzo, Michele ecc. sono stati per quasi 30 anni i miei migliori amici.
Ma
l’aver frequentato, caro Pica, questo mestiere, considerandolo, appunto un “mestiere”,
quasi una pratica da artigiano fra gli artigiani, non mi ha impedito di
riflettere, se pur privatamente, su questa attività (che poi aveva vari
rapporti di parentela con la
precedente pratica di pittore) e su questioni più generali.
E’
vero che offriva anche soluzioni concrete a problemi concreti (vedi la metafora
del “cesso appilato”), ma queste
soluzioni avevano poi a che fare con il problema della “qualità”, di una
buona qualità, del “gusto”, come credo tutte le attività che insistono
nello spazio dell’”estetica”. La qualità, intesa nella sua essenza più
generale, come caratteristica intrinseca di un prodotto in quanto “manufatto
di eccellenza” (si direbbe oggi).
Ma
su questo tornerò tra poco.
Adesso,
caro Pica, voglio dirti che sono stati anni anche molto divertenti: ho pensato oggetti,
“spazi” anche se a
piccola scala, che poi ho visto realizzati e li ho realizzati in qualche misura,
insieme a chi concretamente li costruiva.
Questa
continuità, questa relazione di intimità fra progetto e realizzazione con
tutti gli effetti di possibile retroazione continua fra l’uno e l’altra,
nell’architettura a scala maggiore, in particolare nel nostro paese dove di
architettura se ne fa molto poca, questa retroazione, dicevo, ormai si è quasi
completamente persa. Spesso le stesse figure professionali fra progetto e
realizzazioni sono separate.
Aver
frequentato questo mestiere dal lato di una attività minuta come la
ristrutturazione e l’architettura degli interni, che è quella che
prevalentemente mi è capitato di frequentare, aveva almeno questo aspetto
positivo, se non altri.
Ma
adesso, caro Pica, riprendiamo il discorso sulla qualità e sul suo significato
più generale.
La
qualità sembra oggi nella società della televisione, nella società di massa,
un oggetto misterioso sempre più latitante.
Il
mondo dove visibilità, affermazione, notorietà, successo equivaleva ad
eccellere in qualche settore delle attività umane, essere in qualche modo
diverso, primeggiare, essere più capace degli altri, è stato sostituito (in
parte?) da un mondo dove notorietà significa essere uguali agli altri e forse
anche peggio, non eccellere, ma permettere a tutti gli altri, che non ce
l’hanno fatta di riconoscersi, giustificarsi e immaginare di potercela fare
domani!
Sembrerebbe
il massimo della democrazia, il sogno utopistico di essere tutti uguali, tutti
artisti o pescatori, indifferentemente, il cuoco che diventa per un giorno
statista per poi ridiventare cuoco, è invece l’inganno di una società
massificata o almeno il costo non so quanto sostenibile di banalizzare il mondo
in nome di una illusione e di un bene, come ha detto qualcuno in un vecchio
film, inesistente “la felicità”.
La
qualità, almeno quella unica, quella almeno tendenzialmente valida per tutti,
prevedeva la norma, se eri bravo, ti avvicinavi alla norma, sempre di più, se
non eri bravo, o meno bravo te ne allontanavi
La
società della norma era la società del “segno”, della separazione tra
lecito e illecito, tra buono e cattivo, tra bello e brutto; era la società del
limite, del confine, dell’esclusione (le mura di confine fra città e campagne
e delle porte attraverso le quali si passa dall’una all’altra).
E
così queste società portavano scritte nei propri “geni” la misura della
propria esistenza, il confine della propria cultura e cioè della propria
identità.
Si
trattava di civiltà limitatamente dinamiche o meglio dinamiche nel proprio
perimetro. Civiltà il cui atto fondativo “la metafora dell’inizio”, come
nel rito della fondazione di Roma era il segno, il tracciato perimetrale, che
ritagliava nel mare
magnum della natura l’isola
della cultura, di quella cultura che stabiliva quelle regole che permettevano
alla città di crescere facendo sempre riferimento a quell’atto fondativo.
Invece
le società di massa, le società moderne hanno invertito definitivamente quel
rapporto. L’isola non è più l’isola della cultura ma tutt’al più è
l’isola della natura sempre più perimetrata, sempre più antropizzata. Le
società democratiche, sono sempre più società senza confine, società senza
regole costitutive, senza norme definite ma con molteplici “insiemi di procedure”
stabilite su misura dei soggetti collettivi, sempre pronte ad essere
all’occasione cambiate. Società dell’inclusione veloce, società aperte,
società che impongono ai singoli “l’obbligo
del continuo adattamento” con il rischio della difficoltà della
metabolizzazione del nuovo, di quel “nuovo” più o meno tecnologico che si
presenta sempre più velocemente. Così il cammino iniziato con la perdita del centro,
subito dopo il brevissimo equilibrio del classicismo umanistico, si
conclude qui con la sfrangiatura e la successiva definitiva perdita della linea
di confine.
Caro
Pica, scusami se ti annoio con queste mie divagazioni forse astratte e
approssimative, ma mi piace in occasione del nostro rincontrarci informarti di
tutto ciò che ha attraversato la mia testa e la mia vita in questi trent’anni
in cui, un po’, ci siamo persi.
Allora
riprendendo il discorso di cui sopra, schematizzo:
1)
Nelle società fondate sul confine, nelle società premoderne caratterizzate da
una omogeneità organicistica regolata da un sistema di norme prescrittive,
l’artigianato è sostanzialmente il “sistema produttivo” governato da
regole antiche, selezionate di generazione in generazione, funzionalizzate ad
obiettivi stabili.
In
questo “modo di produzione” la qualità ha come termine ultimo l’arte ed
essa, l’arte, è al culmine della piramide del sistema di produzione. La
qualità è tutta dentro il producibile ed il producibile è oggetto della
qualità, essa ne è l’orizzonte permanente.
E’
la norma che nel corso dell’esperienza del lavoro umano si fa conoscenza,
capacità, esperienza.
Il
lavoro parla la lingua sedimentata dell’esperienza, lo scarto aggiunge nuova
qualità, lo scarto non è fuori della lingua, lo scarto è la lingua che vive
attraverso il contributo soggettivo della capacità dei singoli.
Continuamente
la qualità si misura con il patrimonio complessivo della norma che gli
appartiene, come gli appartiene lo scarto. Il producibile è il regno della
“ripetizione”. Il rapporto tra ripetizione e trasformazione é simmetrico a
quello tra ripetizione e continuità: la ripetizione è il termine medio e
contiene in sé il momento dello scarto come quello della continuità.
2)
La società industriale e poi la società di massa rompe definitivamente questo
schema, amplia a dismisura il regno del producibile, pluralizza i soggetti,
perde il centro, sfrangia ed infine elimina il perimetro, moltiplica le
ideologie, disperde la “norma”,
secolarizza i miti del racconto, laicizza i
ruoli.
Sostituisce
i valori d’uso con i valori di scambio o meglio utilizza questi ultimi per la
socializzazione dei primi.
Pluralismo
politico e pluralismo economico diventano i soggetti di una trasformazione
continua della società aperta. La qualità
si trasforma nelle qualità al
plurale e le qualità sono sempre più appannaggio della produzione industriale.
La
qualità della “merce”, soggetto del consumismo, marca un vuoto, segna una
soluzione di continuità tra cultura bassa ed arte. Ed allora, se da una parte
la qualità si deve abbassare alle qualità del consumo, dall’altro una qualità
tutta astratta, quella dell’”arte”
si elegge a prototipo, “status-simbol” della qualità medesima, metadiscorso
circolare, narcisisticamente rivolto su sé stesso nella autoanalisi delle
proprie ragioni d’esistenza.
Cultura
alta e cultura bassa si separano apparentemente in un conflitto irrisolvibile,
nella sostanza rimangono soggetti di uno stesso psicodramma.
Pazienza
Pica, arrivo alle conclusioni.
Non
penso minimamente di dare risposte anche parziali ad una tale somma di problemi,
che forse imprudentemente mi sono usciti dalla penna.
Non
ne ho né l’arroganza né la presunzione.
Ho
solo dato sfogo a qualche riflessione che mi sollecita nel panorama delle cose
che vedo, delle nuove abitudini che silenziosamente sostituiscono le vecchie,
con nuovi comportamenti apparentemente innocui, che velocemente si sostituiscono
e che contemporaneamente cambiano la percezione del mondo in cui è sempre più
difficile orientarsi.
Una
percezione sempre più frammentata ma orizzontale dove tutte le cose sembrano
essere disposte in uno spazio omologante: sensazioni, comportamenti
intercambiabili senza profondità e almeno apparentemente senza gerarchie,
disposte su di un piano senza un ordine plausibile, dove l’esigenza di
un’eventuale classificazione, diventa, quando è possibile, un impegno privato
se e come si hanno strumenti per farlo.
E
così il nomadismo diventa in qualche modo una strada obbligata, risultato
automatico dell’effetto di disorientamento.
Debbo
confessarti, caro Pica, che a volte questo mondo un po’ mi spaventa. Certo,
non mi sento estraneo ma a volte comportamenti e relazione tra gli stessi mi
appaiono come estranei.
Sarà che si nasce rivoluzionari per
morire “pompieri”.
A
conclusione di questo sproloquio mi chiederai che cosa c’entri questo col
nostro rincontrarci.
C’entra
e mi pare di poter dire che questo è un altro modo per la stessa necessità che
mi ha accompagnato facendo l’architetto.
Ho
praticato per anni il tentativo di dare risposta a problemi oggettivi,
nascondendo all’interno di queste risposte, quale cavallo di troia, elementi di ordine: qualche spunto per ordinare,
secondo criteri che a me paiono plausibili, alcune “cose del mondo”, le cose della quotidianità.
E
cosi, anche queste immagini che tu appenderai alle pareti della tua galleria il
20 dicembre hanno questa necessità: la necessità di nominare, secondo un
ordine sempre più “privato” (ma ho paura che da questo limite non sia più
possibile scappare), provvisoriamente e forse anche illusoriamente e infine
limitatamente allle mie esigenze qui ed
ora,“ le cose del mio mondo”. E per quanto è possibile dare un senso
alla vita.
Ciao,
Antonio
Napoli, 15 novembre 2006
Ps:
Le conclusioni come puoi veder sono molto più brevi e sintetiche delle
riflessioni che le precedono, ma tant’è, è più facile argomentare che
trarre le conclusioni.
Ti saluto di nuovo caramente,
Antonio
Dentale